È curioso come, in pochi mesi, il cinema europeo abbia nuovamente fatto registrare una forte attenzione nei confronti di quel mondo operaio e proletario che spesso, negli ultimi anni, era finito ai margini del dibattito artistico continentale, più decisamente concentrato, invece, su questioni linguistiche e di pura tecnica. Soltanto in questa stagione, invece, in Italia come in Francia, tanti cineasti ci hanno regalato delle visioni di popolo, di memorie, di problemi irrisolti che molto hanno a che fare con una stagione di diseguaglianze evidenti come quella che stiamo vivendo. E non c'è da stupirsi, forse, se questa particolare attenzione arriva da due Paesi fondatori di quella vecchia Europa unita, rimessa pesantemente in discussione da movimenti di diversa estrazione culturale, accomunati però da una volontà di ribellarsi a un'operazione, encomiabile certo, ma probabilmente rimasta monca e caratterizzata, tuttora, da elementi di profonda ingiustizia sociale.
E così, senza rinunciare ai propri temi più cari, alle proprie ossessioni o preferenze stilistiche, Matteo Garrone, Alice Rohrwacher, ma anche Robert Guédiguian, Agnés Varda, Abdellatif Kechiche, fino al film portato a Cannes da Stephane Brizé, molti autori europei hanno scritto e raccontato storie che prendono il loro spunto iniziale proprio dalla condizione sociale disagiata, dall'emarginazione delle grandi periferie, dal decadimento di una comunità industriale capace di offrire lavoro e benessere diffuso, fino ad accostare a questo filone quello della discriminazione etnica, della perdita di confidenza con l'integrazione del diverso, andando a creare una società non solo fortemente ghettizzata in base al censo, ma anche in base al luogo di nascita.
L'osservazione del reale, e con esso di tutti gli elementi di forte preoccupazione provocati da una situazione collettiva precaria e preda di istinti bassi e a buon mercato, ha sempre ispirato anche il cinema di un altro regista francese, quel Laurent Cantet, capace dieci anni fa di vincere una Palma d'oro con il magnifico "La classe". In questo decennio, in verità, Cantet si è un po' perso, inseguendo di volta in volta, spinto forse da un eccesso di ambizione, luoghi cinematografici che non gli appartengono, dalla grande tradizione narrativa americana (e di qui l'adattamento di un romanzo di Joyce Carol Oates in "Foxfire") alla rievocazione nostalgica di un periodo che poco ha da spartire con il suo Paese natale (lo scialbo "Ritorno a L'Avana"). Ora, invece, non solo torna a casa con "L'atelier", ma riprende un filo del discorso idealmente legato proprio al suo capolavoro capace di conquistare la Croisette.
"L'atelier" torna infatti a parlare di ragazzi, di adolescenti, attraverso il trucco narrativo della costrizione geografica e dell'unità temporale. Un gruppo di giovani, infatti, si ritrova a La Ciotat, luogo di antica memoria cinematografica caro ai fratelli Lumière, ma anche località della Provenza particolarmente significativa dal punto di vista politico. Qui si è assistito negli ultimi trent'anni a una delle più imponenti trasformazioni della società e dell'economia francese, dismettendo uno dei più importanti cantieri navali sul Mediterraneo, che dava lavoro a centinaia di persone, e facendo dell'amena cittadina una località turistica buona soprattutto per facoltosi turisti internazionali dal portafogli gonfio. In questa località, insomma, il gruppo di lavoro deve imparare a scrivere un noir, sotto la guida dell'affermata scrittrice Olivia. E se la gran parte della comitiva si lascia prendere quasi subito dalla foga della scrittura, il più anticonformista della compagnia, il silenzioso e inquietante Antoine, manifesta subito le sue paure e le sue pulsioni ancorate all'oggi che stiamo vivendo. In un mondo spesso caratterizzato dal politicamente corretto e dalla necessità di aderire a un pensiero predominante, il ragazzo difende, da scrittore non professionista, la libertà di professare una totale libertà di pensiero. Tradotto dalla mente di un giovane con evidenti problemi comportamentiali nella Francia contemporanea, tutto ciò significa simpatia per movimenti razzisti, paura del diverso, voglia di vendetta dopo i recenti attentati terroristici.
Ma tutto questo mal si addice al mondo pacificato che l'autrice affermata ha costruito attorno a sé. Ecco dunque che, nelle intenzioni di Cantet e del sodale Robin Campillo, che ha scritto insieme al regista la sceneggiatura, la tensione dialettica tra maestra e allievo dovrebbe dare adito a una deflagrazione di emozioni e di punti di vista diversi. Cantet, però, ha dimenticato quell'afflato corale e accorato che ci aveva fatto amare il gruppo di alunni e il loro insegnante de "La classe", volge tutto il dibattito sul piano dell'eloquio formale, della teoria senza applicazione pratica. Il suo workshop assume quei connotati elitari che vorrebbe mettere all'indice. A differenza di tutte le pellicole di quegli autori citati in apertura di recensione, Cantet ha perso un po' di cuore, di visione del mondo concreta. Peccato, perché l'idea originaria era davvero interessante: mettere a confronto due idee diverse di futuro e di attualità attraverso la metafora della letteratura, dove le posizioni scomode e oltranziste, seppure folli e aberranti, sono capaci di mandare in totale crisi il pensiero più conforme alla regola generale. Pensiero che, però, produce romanzi scritti con il pilota automatico e genera una concezione della realtà appiattita e inerme. Al duo Campillo-Cantet è mancata una forza narrativa capace di far esplodere completamente un soggetto cinematografico così avvincente.
cast:
Marina Foïs, Matthieu Lucci, Warda Rammach, Issam Talbi, Florian Beaujean
regia:
Laurent Cantet
distribuzione:
Teodora Film
durata:
113'
produzione:
Cédric Ettouati, Luc Augereau
sceneggiatura:
Robin Campillo, Laurent Cantet
fotografia:
Pierre Milon
montaggio:
Mathilde Muyard
musiche:
Bedis Tir, Édouard Pons