“Kill me if you can” (2023) costituisce il terzo documentario della carriera di Alex Infascelli: il secondo di fila, dopo il ben riuscito “Mi chiamo Francesco Totti” (2020). Quest’ultimo è stato intervallato dal primo, “S is for Stanley – Trent’anni al volante per Stanley Kubrick” (2015), da “Piccoli crimini coniugali” (2017), l’unico film di finzione che il regista ha realizzato dall’inizio della produzione documentaria. Negli ultimi anni, dunque, Infascelli si sta quindi dedicando al cinema del reale e, in particolare, a una sua declinazione specifica: la biografia documentaria, cioè la ricostruzione delle vicende della vita di un personaggio, che costituisce il fulcro del racconto proprio grazie alla straordinarietà della sua esistenza.
Questo corpus di film si focalizza su individui che hanno intrattenuto rapporti peculiari con il mondo dello spettacolo: il factotum di Kubrick, inizialmente suo autista e successivamente vero e proprio tuttofare da cui il maestro del cinema ha faticato moltissimo a separarsi; Totti, il grande calciatore, capace di diventare l'uomo-simbolo di una squadra; infine, Raffaele Minichiello, un immigrato italo americano che, dopo essere sopravvissuto alla guerra del Vietnam, si è ribellato allo Stato americano finendo per ispirare Sylvester Stallone nella creazione del personaggio di Rambo. Si tratta in tutti e tre i casi di personaggi liminali al mondo dello spettacolo che, grazie alle loro vicende esistenziali straordinarie, riescono a inserirsi nello show business senza, tuttavia, imporsi su di esso.
Infatti, l’autista aiutante del grande regista sfiora la scena, cioè collabora alla sua realizzazione senza entrarvi e apparirvi; Totti, invece, costituisce l’esatto opposto del protagonista precedente, dato che si pone come fulcro della scena ma non partecipa alla sua costruzione. Infine, l’ex marine del Vietnam intrattiene con lo spettacolo un rapporto più intenso anche del calciatore: non solo si colloca al centro dello show e lo alimenta tramite le sue gesta, ma diviene anche una figura mitopoietica in grado di fertilizzare l’immaginario collettivo generando personaggi a lui ispirati. Infascelli realizza quindi una serie di documentari relativi al rapporto fra l’individuo reale e la fascinazione dello spettacolo che, inoltre, vengono strutturati secondo una progressiva affermazione del primo sul secondo.
Al contempo, anche la costruzione formale di questi tre lungometraggi si caratterizza per una forte unità stilistica, determinata da una narrazione di impianto cronologico, in grado di adeguarsi alla temporalità biografica, e dalla ricca presenza di materiali d’archivio, finalizzati sia a movimentare l’impianto lineare del racconto che a testimoniare la veridicità di quanto presentato. A questa coppia di elementi, Infascelli ne associa altri che, con gradazioni differenti, arricchiscono le unità formali su cui si fonda la grammatica dei suoi documentari: si tratta delle interviste e della voce di commento ai materiali d’archivio.
Tuttavia, nonostante siano sempre presenti in questo piccolo corpus di documentari, al contempo costituiscono l’ambito in cui il regista sperimenta maggiormente e, dunque, rappresentano le maggiori differenze fra i tre film. Per quanto riguarda le interviste, il primo documentario presenta solo due personaggi testimonali (il protagonista e la moglie), a cui si aggiungono le lettere di Kubrick, elemento a metà strada fra il documento d’archivio e l’intervista. Invece, nel secondo, l’unico a essere chiamato in causa è Totti, mentre in “Kill me if you can” i personaggi a cui viene chiesto di testimoniare la propria esperienza si moltiplicano in modo esponenziale: oltre a Minichiello e ai suoi famigliari, sono intervistati anche amici e persone che lo hanno a malapena conosciuto, come la hostess del volo dirottato.
Per quanto riguarda la voce di commento, invece, in “S is for Stanley” un narratore extra-diegetico svolge la funzione narrante al pari del protagonista, mentre il secondo film è fondato sulla compresenza della voce di Totti sovrapposta alle immagini di archivio, capaci di realizzare un rapporto dialettico di mutua co-costruzione della narrazione, dove la voce racconta e le immagini illustrano. “Kill me if you can”, infine, si caratterizza per una pluralità di voci di personaggi intervistati che si sommano alle immagini di archivio e che vengono usate per costruire il racconto.
La vita di Raffaele Minichiello è costellata da vari momenti spettacolari degni di un film: non solo il dirottamento del volo, ma anche il terremoto dell’Irpinia durante la sua infanzia, la migrazione negli Stati Uniti, la partecipazione alla guerra del Vietnam, la vicenda giudiziaria successiva al dirottamento, la perdita della moglie e tanto altro ancora. Sembra davvero che Minichiello abbia vissuto in un romanzo, tanto che la sua esistenza è stata a più riprese oggetto dell’attenzione del sistema mediale: è apparso in telegiornali e in televisione per via del crimine e del seguito giudiziario, ha fatto il modello per la rivista “Playmen”, è stato scritto un romanzo sulla sua vita e, a settant’anni passati, è il protagonista di un documentario.
“Kill me if you can” stesso mostra di riflettere profondamente sulla compresenza di realtà e spettacolo insita in Minichiello: Infascelli, infatti, decide di mostrare la scritta di un film che indica l’intervallo fra i tempi, oltre a strutturare il proprio lungometraggio in capitoli corrispondenti ai vari episodi sensazionali della vita di Raffaele e caratterizzandoli tramite il ricorso a diversi generi cinematografici. Più che veri e propri elementi narrativi o visuali propri di generi ben precisi, il regista suggerisce questi ultimi strizzando l’occhio allo spettatore tramite il ricorso a piccoli indizi, come l’uso del montaggio veloce e serrato nella narrazione del processo, capace di rimandare a un certo cinema politico-civile proprio degli anni Settanta, oppure la scelta di un brano musicale (“Innamoramento” di Carlo Rustichelli) tratto da “Divorzio all’italiana” (Pietro Germi, 1961) a commento della storia successiva alle vicende giudiziarie e in grado di evocare la commedia all’italiana.
Come è stato brevemente esposto poco sopra, Infascelli decide di fare largo uso di interviste a vari personaggi, fatto che differenzia nettamente questo lungometraggio dai documentari precedenti. La conseguenza è che il protagonista è impossibilitato a esibire il proprio auto ritratto, cioè la personale e immaginifica interpretazione di se stesso e della sua vicenda, schiacciato da una forte presenza registica che si avvale di una narrazione rigidamente oggettiva, fondata sui consueti materiali d’archivio, come i telegiornali d’epoca, e sulle sopradette interviste, che si moltiplicano fino a frastagliare la narrazione di Minichiello e a sovrastarla con resoconti e racconti puntuali e limitati. La ferrea volontà di controllo della narrazione da parte del regista si esplica in vari modi: non solo il ridimensionamento dell’auto ritratto del protagonista a uno fra gli strumento del racconto, ma anche la divisione degli avvenimenti che compongono la vita di Minichiello in capitoli caratterizzati pure dall’uso, già ricordato, delle “coloriture” di genere e l’impiego di una grande ricchezza di testimoni e di documenti d’archivio che prendono letteralmente il posto del protagonista narrante, sia visivamente che uditivamente.
Infatti, i telegiornali e le interviste a Minichiello degli anni Sessanta e Settanta relegano il Raffaele di oggi in un angolo, così come fanno i numerosissimi testimoni che raccontano ciò che accade. Il tutto avviene nel modo più imparziale possibile: gli intervistati non esibiscono proprie interpretazioni degli eventi o sensazioni individuali, ma si limitano a esprimere ciò che è accaduto in modo freddo e oggettivo. A ben vedere, anche le parti lasciate a Minichiello sono trattate allo stesso modo: ci viene infatti presentato sempre impassibile e raramente sentiamo la sua voce turbata dal ricordo dei numerosi eventi traumatici che hanno caratterizzato la sua vita. Si tratta evidentemente di una convergenza tra la personalità del protagonista e i tagli in sede di montaggio frutto della volontà di Infascelli di restituire allo spettatore in modo oggettivo una vicenda umana che è stata fin troppo compromessa con l’elemento spettacolare.
cast:
Raffaele Minichiello
regia:
Alex Infascelli
distribuzione:
Wanted
durata:
90'
produzione:
The Apartment, Fremantle, Rai Cinema
fotografia:
Enrico Parenti
montaggio:
Alex Infascelli
musiche:
La Batteria