Una più che apparente sintonia accomuna questo "Il regno distrutto" al "Mondo perduto" del 1997. C'è il rischio che sia più di una tentazione quella di rifare un seguito a là Spielberg. I meccanismi narrativi si sovrappongono: siamo ancora una volta nei lidi tanto sicuri quanto involuti del remake-copia, con citazioni e ossequi?
Ebbene il carattere intertestuale è doveroso, dovuto anche al produttore/nume che coordina e prende il nome di Steven Spielberg. Ma mentre "Jurassic World" era palesemente un'imitazione del capostipite preso a modello (si prenda "Il risveglio della forza" come esempio), "Il regno distrutto" sceglie una meno anonima allusività, salvando il testo da una preoccupante identità negata in partenza.
Isla Nublar è in un selvaggio stato naturale, un gruppo di mercenari ha il compito di appropriarsi dei dinosauri per smerciarli, mentre i nostri ne vorrebbero sventare i piani ed evitare una nuova estinzione sottraendo alcune specie all'eruzione del vulcano dell'isola. Elementi di contorno che modificano il contesto si assestano su un canovaccio battuto, per qualche momento scricchiolii di stanchezza si avvertono in un incipit abbondantemente parlato, vessato da una certa monotonia descrittiva dei personaggi, ascrivibile alle pratiche di un uso maldestro e caricaturale che sembra inscindibile da questo tipo di produzioni. Le tipologie caratteriali al loro posto, la trama avanza col pilota automatico; allora dove svolta dalla struttura codificata questo secondo capitolo della saga "World"?
Non lo fa mai con estrema decisione, però il passo atteso arriva in piccoli slanci di rinnovamento che poi sono ricollegabili al mito del capostipite, con una nuova ricerca visiva. Il T-Rex nell'incipit che si muove nella pioggia scrosciante, nel buio del suo ambiente di caccia; oppure la maestosa e cupa scena che ricolloca il brachiosauro dopo l'eruzione al centro dello stupore del pubblico (e dei protagonisti); o ancora la tensione orrorifica dell'indoraptor che caccia la preda nel silenzio notturno del plenilunio. In questi momenti "Il regno distrutto" annuncia la sua autonomia pur espletando il suo intrinseco innesco al testo spielberghiano. Non c'è nulla di sbagliato, anzi parrebbe impossibile non giocare con la storia del brand o l'abbruttimento del già codificato si trasformerebbe in un altro pericoloso "Jurassic Park III".
Ma appunto sono slanci in un magma freddo, congelato in un pur sempre arrembante gioco di specchi, in cui a girarsi ci si imbatte nel medesimo clone filmico per famiglie. C'è troppo anonimato in questa fiera del mostro, e se per il primo poteva anche essere una scelta paratestuale quella dello spettacolo geneticamente gonfiato e reiterato (come il parco prospettava), qui si rischia una fiera di scene d'azione prive di diegesi, atte al consumo dell'immagine, della sola visione senza velo, senza cinema.
"Il regno distrutto" sbilancia le sue possibilità, arrischiando temi interessanti (la clonazione umana, la paventata entropia planetaria dovuta alle nuove scoperte genetiche) che cavalcano l'onda della riflessione ambientalista. Eppure il contenitore è sempre quello del blockbuster e prevale inevitabilmente. Come prevale sulla pur visibile forza dell'autore, il regista Juan Antonio Bayona ("Sette minuti dopo la mezzanotte"). Le sue possibilità sono limitate, ma la scrittura si piega a volte alle sue necessità e i luoghi in cui si sviluppa la seconda parte sono le mura di una villa, una novità assoluta in questo senso, appoggiata da un riuscito e personale modellamento della materia. Bayona piega le ombre, gioca con le luci (anche nel prologo) e regala una tetra aura mai inscenata dal franchise. Appaiono come attimi di profonda indecisione in cui "Il regno distrutto" inciampa tra il troppo noto e le bizze piacevoli della regia di Bayona che tenta di rompere gli schemi; attimi in cui ci si chiede cosa attenda il franchise nel terzo atto: una ennesima statica involuzione tra parvenze di nuove sensazioni o il rischio di un rilancio artistico totale?
Il finale è, come nel primo, drammaticamente parossistico, al limite del film di serie B e fa il paio col pianto umanizzante del velociraptor (e l'indoraptor ghignante). Momenti troppo ridicoli che avrebbero senso se il franchise avesse il coraggio di lasciarsi andare totalmente a questo tipo di scrittura sospesa tra il folle e il parodico, e perciò il finale fa ben sperare in un possibile rischio che sollevi la saga "Jurassic World" dal banale e presto dimenticabile riciclo commerciale.
cast:
Chriss Pratt, Bryce Dallas Howard, Rafe Spall, Jeff Goldblum, Daniella Pineda
regia:
Juan Antonio Bayona
titolo originale:
Jurassic World: Fallen Kingdom
distribuzione:
Universal Pictures
durata:
128'
produzione:
Amblin Entertainment, Legendary Pictures, Universal Pictures
sceneggiatura:
Colin Trevorrow, Derek Connolly
fotografia:
Oscar Faura
scenografie:
Andy Nocholson
montaggio:
Bernat Vilaplana
costumi:
Samm Sheldon
musiche:
Michael Giacchino