Possiamo immaginare senza difficoltà la gioia fanciullesca del magnate John Hammond all'incredibile notizia: il parco a tema Giurassico da lui lungamente sognato è, ora, una realtà capace di raccogliere annualmente centinaia di migliaia di visitatori da tutto il mondo. Essendo, però, il pubblico avido di novità, per far sì che il numero di ospiti non cali, i tecnici del parco hanno pensato di allargare la popolazione dei dinosauri e creare in provetta una nuova specie, mescolando diversi frammenti di DNA. Ancora una volta, giocare agli dèi si rivelerà una pessima scelta.
Per parlare di "Jurassic World" occorre anzitutto capire in quale prospettiva inquadrarlo; se sia meglio cedere al languore nostalgico di chi, bambino negli anni novanta, sogna oggi di rivivere l'incanto del primo film, o, piuttosto, approcciare questo quarto capitolo della saga preistorica con sguardo vergine e spirito critico intatto. Non è questione di poco conto e, a dire il vero, entrambe le opzioni paiono irte di insidie. Se da un lato lo spettro di un'emotività dirompente rischia di corrompere (nel bene e nel male) l'onestà del giudizio, dall'altro trascurare la natura derivativa di un progetto così saldamente legato a un preciso immaginario collettivo - di cui si è fatto, insieme, portavoce e movente - espone il film a numerosi fraintendimenti.
Ecco che allora la scelta migliore è, forse, quella di condividere lo sguardo del regista. Cosa si proponeva di fare Colin Trevorrow con "Jurassic World"? Per quanto non priva di un fondo di verità, la risposta 'rifoderare le poltrone di casa con manciate di dollari' ci lascia indifferenti, anche perché, a dispetto della sovrastruttura avventurosa di cui si ammanta, il film gioca la sua vera partita sul piano teorico.
Rimossa la continuità con i due
sequel precedenti, "Jurassic World" allunga fino al capostipite una ragnatela di relazioni, che ne imbriglia il senso ultimo in un continuo andirivieni di situazioni topiche, in cui l'intrecciarsi di parallelismi e minime variazioni illumina sul valore metanarrativo del progetto. E non ci si riferisce, qui, al citazionismo blando e sornione, che recupera l'oggettistica del primo parco, le jeep fatiscenti e l'ironico manifesto "When Dinosaurs Ruled the Earth", ma a una consonanza strutturale, che muove dal riciclo di soluzioni visive - lo scuotersi delle fronde per suggerire l'avvento delle creature - fino al ripetersi di momenti iconici, quale l'esibizione della capra nel recinto del T-Rex: scena esemplare, in cui, annoiato dalla stancante replica di una situazione divenuta
routine, uno dei ragazzi si accontenta di voltare le spalle alla scena, che finisce fuori campo, per parlare con la madre, laddove nel primo film l'esiguo gruppetto di visitatori sgranava gli occhi nella vana attesa dell'animale.
Con una nota di beffarda malinconia, Trevorrow ci ricorda quanto l'abitudine finisca col lenire la meraviglia e come non ci sia spettacolo, per quanto mirabolante, cui non ci si possa assuefare. È, in definitiva, l'assunto principale del film: la stanchezza del pubblico di fronte a un meccanismo divenuto consueto obbliga i finanziatori a drogare lo spettacolo, fino a produrre un essere sintetico, un dinosauro in provetta più grosso, sporco e cattivo, che fomenti l'interesse sopito dei visitatori. È ovvio, a questo punto, che il discorso si sia spostato; non è più di un parco a tema giurassico che stiamo parlando, ma del mondo dello spettacolo e, per estensione, del cinema stesso. Non deve sorprendere; già il libero scorrazzare dei dinosauri in "Jurassic Park" adombrava una riflessione storica sul cinema di intrattenimento - dall'illusionismo alla Méliès del primo varietà inscenato da John Hammond, un circo delle pulci, fino alla celebrazione del
blockbuster contemporaneo, passando per l'irrinunciabile "King Kong".
E se il pubblico vuole sempre "più denti", la sopravvivenza di un
franchise sarà affidata al culto dell'eccesso, al vanto di sbalorditive soluzioni tecnologiche.
Con "Jurassic Park" Spielberg scriveva nei primi anni Novanta l'auto-parodia di un cinema fieramente ludico, ma già in bilico sul confine della pura merce (si veda l'intelligente e ambiguo gioco del
product placement al quadrato, in cui le tazze, le magliette e il logo del parco che fanno la loro comparsa nel film vengono, poi, commercializzati nella realtà). Ora, raccolto il testimone del suo mentore, Trevorrow prova a ripetere la scommessa e, mentre celebra il trionfo della computer grafica in questo gigantesco spettacolo di lucertoloni arrabbiati, azzarda un sottile biasimo verso quel cinema, insensibile alle storie e ai personaggi, che lavora per solo accumulo.
Inutile cercare di sopprimere la fascinazione verso un'imprenditoria così spregiudicata da irridere la propria megalomania, nel momento stesso in cui ne intasca i profitti, ma qui, più che etica, la questione è cinematografica. Qual è, allora, la differenza tra l'opera di Spielberg e questo "Jurassic World"? In una sola parola: la meraviglia. Abbiamo ancora negli occhi, a distanza di anni, l'incanto suscitato dalla prima apparizione del
T-Rex sotto la pioggia battente, l'immobilità soffocante degli alberi in attesa che facesse capolino, l'incresparsi dell'acqua al tonfo dei suoi passi. Di tutto ciò non è rimasto che qualche fronda ballerina e pochi graffi su una parete.
In ottemperanza al principio sovrano per cui oggi bisogna mostrare, mostrare e ancora mostrare, i dinosauri compaiono sin dal primo istante e se all'inizio un minimo di sorpresa ci coglie nell'ammirare il parco finalmente completato, il progressivo ripiegarsi del racconto nei confini di un generico film di mostri (in ciò aiutato da una regia più prossima al James Cameron di "Aliens" che a Spielberg) sciupa in breve qualunque fascinazione. Si provi, per gioco, a togliere i dinosauri dal film e sostituire loro una qualche mostruosa creatura aliena: nulla cambierebbe.
A forza di intrecciare legami col capostipite e muoversi in un labirinto di riferimenti, "Jurassic World" si smarrisce e, privo di guizzi sul fronte visivo, si estingue nelle generiche secche del blockbuster odierno.
Quel che gli difetta è anzitutto un'architettura narrativa che vada oltre il principio della reazione a catena (per cui la fuga dell'Indominus Rex prelude a quella di altre specie) e sappia innervare di senso un film, che, pur dichiarando consapevolmente - si è visto - di esaurirsi in una generica proliferazione di creature sempre più imponenti, si contraddice suggerendo al pubblico perbene una ambigua morale
new age di convivenza tra dinosauri e umani, fondata sull'asservimento e l'educazione dei primi. Siamo agli antipodi della concezione
spielberghiana, che, pur sulle note edulcorate di un lieto fine, chiudeva a doppia mandata la sua Xanadu, consegnandola definitivamente al dominio dell'
artificio meccanico.
E quando quattro anni dopo varcherà l'ennesimo "no trespassing" nell'isola gemella de "Il mondo perduto", l'impressione livida e putrescente di un mondo giunto alla fine emergerà con ancora più forza.
Non si può, comunque, dire che Trevorrow sia disonesto; quel che il trailer promette, lo offre: dinosauri sempre più grossi, famelici e terribili. Ma senza la fascinazione visiva, senza lo stupore per una coesistenza impossibile, senza la meraviglia suscitata dal pensiero che quelle maestose creature milioni di anni fa abbiano realmente camminato sulla Terra, a cosa è valso questo tripudio di fantasmi digitali?
13/06/2015