Una didascalia mette subito le cose in chiaro: l'opera a cui si sta per assistere è tratta da una storia vera, dalla vita incredibile di una delle
danseuses più influenti di sempre. Il suo nome è Loïe Fuller, al secolo Mary-Louise, ballerina statunitense vissuta a cavallo tra Ottocento e Novecento capace, attraverso innovative coreografie dall'impatto visivo dirompente, di rivoluzionare la danza classica. I suoi numeri erano basati su enormi costumi di seta e su luci coloratissime, opportunamente modulate al fine di risaltare i movimenti sinuosi della stessa Fuller (guardate qui
la celebre danza serpentina e
i dipinti di Henri de Toulouse-Lautrec che la ritraggono). Al centro di questi balli e di queste complicatissime scenografie c'è lei o, meglio ancora, il suo
corpo, che si muove con una grazia al confine tra l'umano e il divino. Al cinema la riflessione sul
corpo occupa un posto di primo piano per la natura del
medium stesso, in grado di riprodurre con verosimiglianza le membra umane ma, allo stesso tempo, alterandone le proporzioni, i contrasti, le imperfezioni: in nessun'altra arte, forse, la carne appare così prossima e così lontana, così astratta e così tangibile. Non è un caso, allora, che le sequenze più affascinanti di "Io danzerò", opera prima della regista Stéphanie Di Giusto, siano quelle dove la macchina da presa ritrae più da vicino - e con maggiore sensibilità - il
corpo danzante della sua protagonista, dove il tempo della narrazione viene sospeso per lasciare spazio ai moti virtuosi di Soko (eclettica cantante francese di origine polacca) e delle altre ballerine.
Dopo un (superfluo) inizio
in medias res, "Io danzerò" (titolo originale: "La Danseuse") narra la crescita della giovane Loïe nell'Illinois, tra montagne innevate, uomini alcolizzati e letture wildiane. A seguito della morte del padre - ripresa intensamente grazie al saggio utilizzo del montaggio parallelo - sarà costretta, guidata dal sogno di sfondare come attrice, a raggiungere la madre a New York. Scoprendo casualmente le proprie doti di ballerina riesce, grazie al "supporto economico" del conte Louis (Gaspard Ulliel), a trasferirsi in quel di Parigi, dove potrà aprire un'accademia di danza tutta sua e diventare un'artista di straordinario successo. Almeno fino a quando il rapporto con una delle allieve, Isadora Duncan (Lily-Rose Depp), non la farà sprofondare nel baratro della disperazione.
È un
biopic assolutamente convenzionale, questo di Stéphanie Di Giusto, che fonda tutta la propria struttura su una sceneggiatura superficiale e priva di mordente. Le vicissitudini e i trionfi della ballerina statunitense vengono romanzati assecondando diversi stereotipi del genere, focalizzandosi molto più sulle difficoltà, i problemi e i tormenti che la Fuller dovette affrontare che non sui suoi successi e sulle sue vittorie. La protagonista di "Io danzerò" è un'anima tormentata e fragile, insicura di se stessa e vittima delle pulsioni sessuali omoerotiche che (forse) non riesce a riconoscere; al contrario, Isadora è giovane, bellissima e piena di fiducia nelle proprie potenzialità. L'eccessiva semplificazione caratteriale dei personaggi si accompagna all'ordinarietà dell'intreccio - che non offre clamorosi colpi di scena né particolari trovate narrative - e all'insipidità dei dialoghi, mai veramente capaci di catalizzare l'attenzione dello spettatore. E se la Di Giusto mostra una certa padronanza del mezzo cinematografico, tuttavia rimane entro i territori già calpestati del filone, senza offrire un punto di vista significativo e personale sulla storia che intende raccontare; senza valorizzare un racconto, almeno potenzialmente, ricco di spunti di riflessione.
I pregi maggiori della produzione sono da ricercare altrove: nello specifico, in alcune relazioni tra i personaggi e nelle, purtroppo brevi, coreografie di ballo. A dominare la pellicola nell'oscurità è la sinistra e ambigua figura del conte Louis, interpretato da un Gaspard Ulliel quasi irriconoscibile senza il sudore che lo contraddistingueva nel
film di Dolan: nei suoi sguardi provocanti e intimoriti vediamo le contraddizioni che invece non cogliamo nel resto dell'opera, una luce in grado di riempire le inquadrature allo stesso di tempo di
eros e
thanatos. Quando la macchina da presa, poi, decide di soffermarsi su lui e Loïe, sulle loro reticenze e incomprensioni, sui loro istinti e bisogni primordiali, "La Danseuse" guadagna moltissimo in profondità e credibilità. Ma i momenti che più di tutti si imprimono nella memoria sono le già citate scene di danza, aggiornate secondo le coordinate del cinema del XXI secolo: le scenografie di Carlos Conti, aiutate dalle musiche suggestive, offrono uno spettacolo unico ed emotivamente potentissimo, rendendo alla perfezione la meraviglia delle originarie creazioni dell'artista e trasmettendo tutta la fatica e il peso che governavano quei movimenti.
In questi attimi, dove il tempo viene dilatato (che sia per mostrare la carnale intimità dei protagonisti, che sia per indugiare sul travaglio fisico di Loïe) e lo sviluppo narrativo momentaneamente accantonato, "Io danzerò" si eleva rispetto alla massa sconfinata di prodotti simili, portando una ventata d'aria fresca al sempre più codificato genere biografico. Sono purtroppo semplici istanti, che non riescono a risollevare le sorti di un'opera non particolarmente brillante né significativa, trascurabile nonostante le affascinanti premesse. Quel
corpo che Loïe utilizza per vivere, che è la porta attraverso cui tutta la sua arte fuoriesce e che le ha permesso, anche un secolo dopo, di divenire un'icona ammirata in tutto il mondo, purtroppo rimane spesso sullo sfondo, come se la Di Giusto, ammaliata e spaventata, vi si mantenesse a una discreta distanza di sicurezza. O, più probabilmente, come se cercasse un equilibrio quasi impossibile tra le proprie velleità autoriali e le stantie convenzioni del
biopic.