Per il suo sesto film, che ha vinto il Premio speciale della giuria al 69° festival di Cannes, il ventisettenne cineasta di Montréal adatta quello che è ritenuto il capolavoro di Jean-Luc Lagarce, l'autore teatrale oggi più rappresentato in Francia, di cui non fu mai portato in scena nulla prima della morte avvenuta prematuramente nel 1995. "Juste la fin du monde" racconta di Louis, un quarantenne che torna dai familiari con cui non ha più rapporti da anni, per annunciare la sua malattia (che non viene mai nominata neanche da Dolan) e la prossima morte.
Dolan conserva la scrittura frammentata di Lagarce in una sceneggiatura il cui flusso di parole, incessante e interrotto di continuo, nasconde più di quanto non riveli. Come i dialoghi sono impostati sulla reticenza, analogamente tutto il film è costruito sul non detto, e la tensione narrativa scaturisce dall'ansia dello spettatore che si chiede quando e se sarà colmato. Affidandosi a prove attoriali particolarmente affiatate (che sintonia e che eccellente direzione degli attori!), nell'isteria di dialoghi senza sbocco le uniche aperture sono i momenti in cui il regista sospende il tempo con la musica e i ralenti (un marchio personale sin dall'esordio di "
J'ai tué ma mère", mutuato da Wong Kar Wai ma dosato in maniera più accorta e controllata rispetto all'esuberanza che contraddistingue, ad esempio, "
Laurence Anyways", proprio in questi giorni distribuito anche in Italia). Sono aperture liriche, che raccontano di una vita che vorrebbe respirare a pieni polmoni e non ci riesce, compressa, come il nostro sguardo, in primi piani strettissimi, sempre sull'orlo del primissimo piano quando non del dettaglio. Scelte corrispondenti, per significato, al formato 1:1 di "
Mommy". Lungi dal segnare stilisticamente una cesura nell'opera del suo autore, "Juste la fin du monde" è un film in cui però tutto appare più dimesso, sfumato, cupo.
L'alterità esistenziale dei protagonisti di Dolan, il loro essere irriducibili al contesto in cui vivono e in cui non si ritrovano (perché li fa sentire inautentici), si riduce qui alla resa dei conti fra una vita che va a morire e il mortifero avvizzimento interiore dei vivi. E' la vita costretta a percepirsi con intensità più alta proprio nel momento in cui sa di essere prossima alla fine: la costrizione massima immaginabile. Louis (un intenso Gaspard Ulliel) è un nuovo
alter ego per Dolan, e l'identificazione con il protagonista, data la giovane età del regista, si carica di un retrogusto leopardiano; come se Dolan, dopo aver immaginato da adolescente la morte della madre (il film d'esordio), immaginasse adesso la propria morte quale cartina al tornasole della disperata intensità con cui percepisce la vita. Il film è carico anche di un irrimediabile senso di nostalgia, di un legame alle cose passate ancora inedito nella poetica di Dolan. Si tratta anche per questo del suo film più maturo: una riflessione intimista in cui giocano un ruolo stilistico chiave i chiaroscuri, i primi piani e i dettagli, e in cui il regista sposta l'asse della propria poetica portandosi su un terreno dove arde come nucleo tematico il contrasto fra la prosaicità del quotidiano e
ciò che conterebbe veramente, ma per cui non c'è più tempo.
Negli intricati rapporti intessuti di rancore, in ciascun membro della famiglia traspare una fondamentale incapacità di amare. Il fratello Antoine (Vincent Cassel) è arrogante e iracondo, la cognata Catherine (Marion Cotillard) succube e inibita, la sorella Suzanne (Léa Seydoux) spigolosa e infelice. Ma la più infelice, forse, è la Madre, l'ennesima figura materna di Dolan (Nathalie Baye, interprete ricorrente nei suoi film), il cui inscindibile legame con il figlio si condensa in poche, dolenti scene.
"Juste la fin du monde" è un film che necessiterebbe di più visioni per poterne cogliere e custodire le tante sfumature. Alla delicata sensibilità con cui sono ritratti tutti i personaggi (anche Antoine, alla fine, rivelerà una rimossa fragilità) si accompagnano le sfumature delle scelte di messa in scena, che Dolan padroneggia sempre più sicuro, lavorando meglio anche per sottrazione. Le stesse aperture musicali sono più rare e rarefatte: i "momenti-videoclip" sono diversi, per tono, rispetto ai film precedenti - abbondano le musiche in minore, e sulle canzoni pop predominano brani strumentali e strumentazioni classiche.
Anche il tema delle ipocrisie che minacciano l'autenticità è risolto tramite sfumature: i contrasti tra i personaggi non subiscono ridimensionamenti, la trama è quasi bloccata in un'
impasse. Se gli equilibri mutano lo fanno gradualmente, senza scossoni. Si procede per variazioni minime.
Tutt'altro che film minore e interlocutorio (come inteso da alcuni), "Juste la fin du monde" aggira il rischio della maniera personale facendo intravedere in quale direzione potrebbe evolvere il cinema di Dolan. Senza segnare radicali cambi di rotta: Dolan non rinnega le sue predilezioni stilistiche, ma le affina, e a livello tematico amplia, matura, approfondisce.
Nella sua filmografia, il film più affine è "
Tom à la ferme", anche lì tanti non detti e reticenze: e già su quel film gravava la morte (quella del compagno del protagonista). Al centro della scena sempre un protagonista ipersensibile, in un'identificazione quasi autobiografica, e un antagonista macho e prepotente che rivela infine la propria fragilità. Ma il Tom del film del 2013, interpretato da Dolan stesso, esprimeva la precarietà e la difficoltà di corrispondere a sé; in "Juste la fin du monde", invece, Louis è fermo e maturo, carico di un'estrema, trattenuta consapevolezza. Per lui parlano i silenzi: la sua tragedia è già elaborata, al punto che appare il personaggio più stabile non solo del film, ma di tutta la filmografia di Dolan. Se il protagonista di "Tom à la ferme" a un certo punto vorrebbe fingere un'armonia che non sta nei rapporti reali con le controparti, Louis al contrario diventa via via sempre più consapevole dell'inanità che lo circonda. Louis è già oltre, come se il consesso cui è venuto a far visita mentre lo attende la tomba gli avesse dischiuso una calma serafica e disillusa, definitiva, cui è ormai estraneo ogni rimpianto. Noi, al contrario, non possiamo che essere rapiti da un crescente senso di angoscia, avvinghiati all'intensità dei suoi sguardi e dei suoi silenzi.