Costa d’Opale, Francia settentrionale. In un piccolo paesino di pescatori, nasce un bambino speciale, così particolare da scatenare una guerra segreta fra le forze extraterrestri del Bene e del Male. Alieni prendono possesso dei corpi degli umani e cominciano a infettarli del Male: la principessa Jane, aiutata da un prode compagno, arriva per combatterli con tanto di spade laser, mentre scopre i piaceri della carnalità.
La prima scena de "L’impero" racchiude due coordinate fondamentali del cinema di Bruno Dumont. Un campo lungo si sofferma per alcuni istanti su un paesaggio brullo, mentre sentiamo la voce di una ragazza, Line (Lyna Khoudri), che parla al telefono mentre prende il sole. "Quanto è bello qui", dice, ricorrendo alla stessa espressione che pronunciavano i coniugi Van Peteghem in "Ma Loute". La location (la Costa d’Opale) è la stessa, così come è simile, se non più marcato, l’atteggiamento vacanziero e superficiale nei confronti del luogo. Uno stacco ci mostra poi il suo primo piano, seguito da un’immagine del suo corpo nudo che si offre alla macchina da presa. Un corpo affascinante, da ammirare e da conquistare, ma capace di mantenere la propria indipendenza. La ragazza, incarnazione della contemporaneità, non è però in tensione verso un Altrove come Jeannette o Hadewijch, è interessata solo che il cellulare prenda e che il ragazzo non la tradisca.
Allo stesso tempo, il film rappresenta una novità per Dumont, in quanto propone, come già in "France", una narrazione più forte, e, a differenza del precedente, un addomesticamento della sua poetica su molteplici livelli. Ritornano i due poliziotti di "P'tit Quinquin" (Bernard Pruvost e Philippe Jore) pieni di tic e stravaganze, ritorna l’attenzione ai buffi volti della provincia francese, in particolare nel consueto gruppo di bambini. Questi elementi però sono marginali nella storia, assumendo il valore di easter egg per i cultori del cineasta. C’è il male che si insinua nella piccola comunità, che non rimane forza inspiegabile come nella serie (che prendeva proprio la forma del murder mystery per svelarne il cortocircuito) ma trova espressione concreta di entità sovrannaturale in lotta contro il suo opposto.
In questo orizzonte, Dumont finisce per rendere didascalico anche il modo in cui porta avanti il suo discorso, a partire dalle scene di sesso. La principessa Jane e il demone Joni approfittano dei corpi umani e si uniscono carnalmente nel bosco, mentre nei dialoghi dichiarano esplicitamente la loro bestialità. Come in "Twentynine Palms" il regista prima si avvicina a loro, poi stacca su un campo lungo mentre è in corso l’amplesso. In una scena successiva, i due si baciano appassionatamente e la macchina da presa compie un movimento circolare, inquadrando i cavalli vicini. Esseri ridotti a meri istinti carnali, personaggi che si fondono con lo spoglio paesaggio. Poco più avanti, in un esplicito parallelismo, si passa dallo Spazio dove si discute di un’apocalisse imminente a ignare persone comuni al mercato. I loro discorsi vertono sul caldo insopportabile e altre minuzie: lo sguardo sull’umanità del regista è spietato. Siamo bem lontani dai precedenti lavori del regista, dove nei confronti del crudo panorama rappresentato non c’era alcun intento sociologico e si scorgevano barlumi di empatia verso i propri personaggi.
Infine, consideriamo l’elemento religioso, che nella prima parte di carriera di Dumont si prestava a complesse riflessioni teologiche, mentre ne "L’impero" viene invece evocato da una cattedrale come navicella spaziale delle forze del Bene. Presa di coscienza che nel mondo moderno l’elemento sacro è ridotto a mero contenitore, come l’intero genere cinematografico di riferimento. La space opera lucasiana, scontro tra due principi assoluti, viene ricondotta a una vittoria del caos. La maggior parte dei personaggi (soprattutto quelli interpretati da Fabrice Luchini e Camille Cottin) sono macchiette esasperate, gli interni kitsch e fatiscenti. La comicità slapstistick di "Ma Loute" si sposta qui nei territori del nonsense, "Balle spaziali" con il tocco di Quentin Dupieux. La satira però non graffia, le gag si sprecano in un gioco di accumulazione.
Il problema dell’operazione si riscontra anche nel fatto che Dumont parte dalle macerie di un certo immaginario per crearne uno nuovo, dove il suo cinema d’autore prova a fondersi con il blockbuster americano. Jane (la Anamaria Vartolomei di "La scelta di Anne") è, ancor più di Line, simile a altre eroine dumontiane: come la Marie di "La vie de Jesus" è lei a offrirsi all’uomo, portando le sue mani verso il proprio sesso e sovvertendo dunque i rapporti di forza. Lei veste una canottiera e dei pantaloncini con una pistola nel fodero, una Lara Croft francese, una nuova Milla Jovovich. Spingendosi dunque in territori bessoniani, Dumont crea un ibrido irrisolto, tra la parodia e l’epica, nessuna dei due sviluppata a fondo. Il film funziona meglio quando torna a proporre lo spirito beffardamente rassegnato del regista, come nel finale che, non a caso, presenta i due investigatori e un bambino che pronuncia la battuta conclusiva.
cast:
Anamaria Vartolomei, Lyna Khoudri, Fabrice Luchini, Camille Cottin
regia:
Bruno Dumont
titolo originale:
L'empire
distribuzione:
Academy Two
durata:
110'
produzione:
3B Productions
sceneggiatura:
Bruno Dumont
fotografia:
David Chambille
scenografie:
Erwan Legal, Celia Marolleau, Peppie Biller
montaggio:
Bruno Dumont, Desideria Rayner
costumi:
Alexandra Charles, Carole Chollet
musiche:
Philippe Lecœur