"Illusioni perdute" è cinema pieno di vitalità, di passione, di rabbia, di ironia, di sarcasmo. È un film che si prende gioco della ricostruzione storica o, meglio, gioca con essa, mettendo in scena un'accurata riproduzione di un'epoca ben precisa (la Francia della prima metà dell'Ottocento), ma al tempo stesso dissimulando le reali intenzioni, nascondendo sotto le vesti lussuose, le tavole imbandite e le platee affollate la polvere dell'oggi, la riflessione sul rapporto fra realtà e finzione, fra verità e rappresentazione della stessa. È un'opera, quella firmata da Xavier Giannoli, che sorprende anche per il salto innegabile che permette di compiere alla carriera e al percorso artistico del regista francese. Giannoli è sempre stato ossessionato dal rapporto fra presente e passato, attratto dalle infinite possibilità di trarre insegnamenti dal ripercorrere momenti della Storia del suo Paese; ma, in verità, il suo lavoro dietro la macchina da presa è solitamente appesantito da un manierismo che ha ben poco di istrionico. Piuttosto, la sua calligrafia così esibita ha spesso rischiato di confondersi con una perdita di senso dell'opera filmata, del testo riadattato, dell'immagine impressa sulla pellicola. Alle prese con il romanzo di Balzac (o, per meglio dire, con la seconda parte del monumentale lavoro dello scrittore), Giannoli ha rielaborato una sceneggiatura universale, scritta nel corso di quindici anni e poi portata sul set con un'impressionante capacità di adattare lo script alla contemporaneità.
La storia è nota: Lucien, giovane aspirante poeta della provincia, complice la vergogna per la sua relazione clandestina con una donna sposata con un ricco signore del posto, arriva a Parigi con la speranza di portare a compimento il suo romanzo e poi pubblicarlo. Nei suoi tentativi di farsi largo nell'alta borghesia della capitale, finisce per lavorare in un giornale di settore, una rivista di critica letteraria e teatrale dove impara come il giornalismo parigino sia complice degli equilibri e dei rapporti di forza all'interno della buona società. Il giornale non esalta o stronca questa o quell'opera per reali convinzioni, ma perché ogni recensione è sul mercato. Si può comprare una buona critica per sé oppure una stroncatura per un avversario/nemico. Tutto è in vendita, tutto è relativo (come ricorda il personaggio interpretato stupendamente da Vincent Lacoste, ovvero che il giornale considera come verità tutto ciò che è probabile). Le illusioni perdute, secondo Balzac, sono quelle dell'animo puro che si smarrisce, che perde il contatto con le sue legittime aspirazioni e finisce nel calderone di questa lotta per non annegare, in questa sfida all'ostentazione del proprio denaro e del proprio blasone.
Giannoli coglie perfettamente l'essenza narrativa del romanzo e, anzi, la amplifica, la stratifica ulteriormente. L'elemento più ispirato di tutto il film sta proprio in questo: la relatività della verità, le infinite possibilità della finzione. O, in altre parole, il senso del film è nella riflessione della purezza solo apparente dell'arte, che trova un effettivo apprezzamento nell'opinione pubblica non per come l'ha concepita l'autore, ma per come essa viene rappresentata dal critico, da come ne viene filtrato il significato. Con questo ruolo di intermediario che Giannoli riconosce ad editori, giornalisti, recensori, persino alle claque prezzolate che orientano l'esito di una prima a teatro, il risultato è che gli equilibri di una comunità in cerca di assestamento non vengono più regolati dai meriti o persino dai soldi; chi vince e si afferma e chi perde e soccombe lo decide la risposta del pubblico e questa può essere veicolata, incoraggiata, deviata. Usando il registro sardonico del grottesco, Giannoli trasfigura la letteratura balzachiana e la rende occasione di paradosso che fotografa anche attraverso le immagini cinematografiche quella gigantesca "commedia umana" che si perpetua di secolo in secolo.
È interessante come tutto attorno si respiri l'aria della Restaurazione: archiviata la Rivoluzione e la grandeur napoleonica, Parigi è in cerca di tranquillità, di rassicurazioni. E non le cerca nell'affermazione della giustizia e dell'onestà, ma le trova invece nell'accogliente parodia che di loro viene fornita dalla corruzione del ceto intellettuale, che decide a tavolino successi e flop, artisti da incensare e fallimenti da condannare. E più il desiderio di normalità è forte, più la menzogna impera: un cortocircuito mediatico che Giannoli coglie perfettamente nel suo racconto frenetico e nervoso, arricchito da una precisione impressionante nel dettaglio visivo e dalla meticolosità della documentazione storica che porta a mettere (o togliere) ogni elemento nell'inquadratura nel posto giusto per trovarci davvero nella Parigi del 1820. Aperto alla luce del sole nell'incipit e nella mesta scena finale, entrambe ambientate nella campagna di Angoulême, "Illusioni perdute" si chiude negli spazi che fanno la differenza: le redazioni, i teatri, le case lussuose prima e spogliate di ricchezze poi; e in questi interni Giannoli si muove con la sua macchina da presa tenendo bene a mente i suoi modelli di riferimento, fondamentalmente tre. Nelle immagini che ci scorrono freneticamente davanti agli occhi, ritroviamo la vivacità delle scenografie kubrickiane di "Barry Lyndon" (al netto delle licenze storiche che il genio americano si concesse e che Giannoli respinge); nella profonda connessione fra la scelta dei colori fotografati e il mutare delle condizioni di vita del protagonista ritroviamo la caratteristica peculiare dell'entrare o uscire di scena di Tancredi ne "Il Gattopardo" (il direttore della fotografia Christophe Beaucarne ha evidentemente studiato bene la lezione di Giuseppe Rotunno); lo scandagliare gli spazi alla ricerca del minimo particolare, quel movimento circolare della macchina da presa che insegue uomini, donne, abiti di scena, applausi, fischi, orgasmi è lo stesso che era proprio del cinema di Max Ophuls, arricchito qui di funamboliche carrellate o fluide panoramiche. "Illusioni perdute" si arricchisce minuto dopo minuto di irrequietezza, di frenesia. Lo stesso regista dichiara di ispirarsi a Martin Scorsese (a "L'età dell'innocenza" in particolare), poi, nell'uso della voce fuori campo, vera protagonista del narrato, con la sua sovrabbondanza, il suo sovraccarico di considerazioni. Essa, affidata alle tonalità suadenti di Xavier Dolan, irrompe nel racconto come supporto allo spettatore. Non è solo voce che descrive, è voce che intepreta, che prevede, che quasi ispira l'azione di Lucien, fino all'epilogo. La parabola del protagonista (di Benjamin Voisin sarà impossibile non sentir parlare a lungo) si chiude desolatamente nonostante la luce che irrompe nel paesaggio bucolico che lo riaccoglie. Ma il cinema di Giannoli è forse a un punto di svolta che lascia presagire traiettorie ben lontane dalla fase discendente.
cast:
Benjamin Voisin, Cécile de France, Vincent Lacoste, Xavier Dolan, Salomé Dewaels
regia:
Xavier Giannoli
titolo originale:
Illusions perdues
distribuzione:
I Wonder Pictures
durata:
141'
produzione:
Curiosa Films, Gaumont, France 3 Cinéma, Pictanovo, Gabriel Inc., Umedia
sceneggiatura:
Xavier Giannoli, Jacques Fieschi
fotografia:
Christophe Beaucarne
scenografie:
Riton Dupire-Clément
montaggio:
Cyril Nakache
costumi:
Pierre-Jean Larroque