L'ultimo lascito di Andrzej Wajda condensa sogni, esperienze, stati d’animo e lotte giovanili.
Il giovane Wajda sognava l’arte, la pittura prima della rivelazione cinematografica. Discepolo dell'astrattismo geometrico, probabilmente. Nipote spirituale di quel Kazimir Malevič, sovietico di origini polacche, quintessenza del geniale artista vessato dal regime stalinista?
Il cinema di Wajda è stato da sempre, in varie modalità e con significative evoluzioni linguistiche, un atto di resistenza. Muro contro il potere, la sopraffazione, al contempo arrabbiato ma ragionato.
E sovente al centro dell'opera wajdiana troviamo figure maschili di emblematica drammaticità, protagonisti di storie che attraversano e penetrano i principi cardini del suo cinema: la Storia, fissata nel suo tempo e scandagliata alla ricerca delle possibilità di superarla; la comunicazione oggettiva, talvolta rappresentata dall’arte, unico possibile metodo per evadere schemi e meccanismi coercitivi del potere; il lascito, la speranza: quella che resterà o dovrebbe restare nelle mani e nelle menti di future generazioni.
Sono fili che legano il discorso e le immagini del "Ritratto negato", che riserva al suo primo terzo l’esplicazione di tutta la sua visione: la libertà espressiva di Władysław Strzemiński si manifesta in maniera dirompente nella prima sequenza del film. La storia dei suoi ultimi quattro anni di vita comincia con una solare euforia che successivamente non ritroveremo più. La propria arte, il proprio lavoro, l’entusiasmo di donare alla gioventù propri principi, contaminano l’umore non condizionato dalle mutilazioni subite durante la prima guerra mondiale. Più volte ci si chiede come, nel dettagio, avesse perso una gamba e un braccio ma il segreto resta uno spettro di un passato che lui stesso ha provato – e in parte e riuscito – a superare.
Le lezioni del professor Strzemiński dell'accademia di belle arti di Lodz, tramandano principi agli allievi ma fungono anche da manifesto (espresso in particolar modo nel suo "Teoria della visione", 1958) per lo spettatore, capace di scandagliare mirabilmente una visione di arte e di vita: il principio è l’assoluta necessità dell'individuo a possedere una personale coscienza. Partendo da ciò, si teorizza dunque un intimo sguardo: mirando un oggetto ci si appropria del suo riflesso, spostando altrove lo sguardo ci rimane una traccia, una "immagine residua" ("Powidoki", titolo originale del film), con eguale forma ma dall'opposto colore.
Wajda fa di questa appropriazione intima la base dalla quale partire per restituire una rappresentazione credibile ma personale della realta. Di una propria realtà.
Una teoria ed un credo raggiunto e fortificato tramite esperienze di vita vissuta che trovano nella sequenza cardine del confronto tra Strzemiński e il ministro della cultura una rottura già definitiva tra la libertà di espressione (di un esponente esemplare, certamente, ma soprattutto di una civiltà) e una politica (un potere) assoggettata alla sovietizzazione polacca. Agli occhi di un regime a nulla varra la sua arte, a nulla le sue teorie. A nulla anche la fondazione del Museum of Art in Łódź.
Quando ad inizio film uno stendardo raffigurante Stalin copre una finestra dello studio dell'artista, questo viene impregnato dal colore rosso. Anche la tela, ancora bianca e vuota, diviene suo malgrado rossa. L’artista sente forse che un suo insegnamento terreno è giunto al tramonto.
Nel confronto dialettico Strzemiński rivendica il potere dell'arte come illimitato laboratorio di forme e si contrappone ad una tirannia che predica un realismo ideologico in grado di sfidare, combattere e affossare un formalismo che, mancando di fiera e diretta impronta politica, sarebbe nemico del popolo, dei lavoratori.
Ha dunque inizio una sorta di peregrinazione dell'anima da parte dell'artista polacco che si muove tra un appartamento povero e una domestica, mutilazioni che si fanno più presenti e ingombranti, incontri con gli affezionati allievi consolatori ma amari, e una figura, quella della giovane figlia, che emerge sempre più. Di primo acchito sembra affiorare una certa incompiutezza nella restituzione di questo rapporto padre-figlia, importante ma inespresso (forse anche per la scelta di rendere invisibile l’ex moglie e madre della figlia, Katarzyna Kobro, peraltro scultrice di gran rilievo del modernismo polacco dell'epoca). Tali parentesi aperte e lasciate alla deriva celano invece due particolari funzioni: i suggerimenti di interiori ombre capaci di evidenziare, semmai ce ne fosse stato il bisogno, la volontà del film di non erigere alcuna santificazione nei confronti di un artista pur illustre; e la sussurrata eredità di un lascito umano ancora prima che artistico, come gli ultimi fotogrammi ribadiscono.
Il tutto è restituito secondo uno stile piano, in tono minore, che sottrae anche le sottolineature didascaliche di altri film contemporanei del grande regista. Ai tempi dell’epocale "Cenere e diamanti" (1958), Andrzej Wajda venne accusato dalla critica locale di formalismo, simbolismo, barocchismo: rimproveri non estranei a quelli subiti dal connazionale Strzemiński: certo, nessun regime lo colpì nel profondo e, anzi, continuò poi a muoversi in libertà donando alla settima arte molte altre poderose pellicole. Fino al 2016, quando poco dopo la prima mondiale del suo "Powidoki" scomparve. Lasciando con discrezione questo mondo, con un ultimo atto di fedeltà e coerenza: per sé, per gli altri, per il cinema.
cast:
Bogusław Linda, Zofia Wichłacz, Bronisława Zamachowska, Andrzej Konopka, Krzysztof Pieczyński, Szymon Bobrowski, Mariusz Bonaszewski
regia:
Andrzej Wajda
titolo originale:
Powidoki
distribuzione:
Movies Inspired
durata:
98'
produzione:
Akson Studio
sceneggiatura:
Andrzej Mularczyk
fotografia:
Paweł Edelman
scenografie:
Marek Warszewski
montaggio:
Grażyna Gradoń
costumi:
Katarzyna Lewińska
musiche:
Andrzej Panufnik