L'ambito processuale è chiaramente un terreno fertile per gli sceneggiatori di talento, con le arringhe, i dialoghi serrati, gli interrogatori e i contro-esami, la dialettica tra giudice e avvocati. Ed era perciò inevitabile, se vogliamo, che colui che è considerato tra i maggiori sceneggiatori contemporanei, quell'Aaron Sorkin già premio Oscar per lo script non originale di "The Social Network", finisse per confrontarsi con quegli ambiti e scenari. L’aveva fatto in "Molly’s Game", suo esordio alla regia. E lo ha rifatto con "Il processo ai Chicago 7", in cui l’aula di tribunale arriva ad assumere un’importanza centrale (come in "Codice d’onore" di Rob Reiner, esordio alla sceneggiatura per Sorkin). Se in "Molly’s Game" il regista-sceneggiatore newyorkese si era dilettato in dialoghi serratissimi, conditi da una voce narrante invadente, con l’ambito processuale che rappresentava soltanto un inevitabile corollario dell’intreccio, con la sua opera seconda si sposta direttamente dalle parti del film giudiziario, fondendo storia americana, legal drama e scorci di commedia di grande efficacia.
La vicenda è quella del processo tenutosi a Chicago, nel 1969, nei confronti di coloro che passeranno alla storia come i Chicago Seven, sette leader di movimenti attivisti che avevano organizzato le grandi proteste di piazza in occasione della Convention del Partito Democratico tenutasi a Chicago il 28 agosto 1968. Giorni funesti, caratterizzati da continui scontri tra i manifestanti, da una parte, e le forze di polizia e i militari della Guardia Nazionale, mobilitati per l’occasione, dall’altra.
Si respira aria di New Hollywood, almeno per i temi trattati, ma anche in virtù del modo in cui Sorkin sceglie di introdurre le vicende, con un lungo prologo che prende il via mostrando il faccione di Lyndon Johnson in uno dei suoi messaggi alla nazione, mentre cerca di far digerire l’ennesima dislocazione di nuove truppe in Vietnam. Allo stesso modo cominciava infatti il poco conosciuto "Greetings" di Brian De Palma, in anni (era il 1968) in cui parlare del Vietnam all’interno di un film era cosa poco conveniente, a meno che lo si facesse (come nel caso di specie) in contesti indie (De Palma e il protagonista del film, Robert De Niro, erano ancora praticamente sconosciuti). La New Hollywood sarebbe detonata fragorosamente di lì a poco e quello della contestazione giovanile sarebbe diventato uno dei temi portanti della corrente. Tanto che un film sui drammatici giorni di Chicago già c’è, ed è lo straordinario (ma anch’esso poco frequentato) "America, America, dove vai?" di Haskell Wexler (1969), che aveva fuso insieme documentario e finzione.
Anche Sorkin usa questa tecnica, sebbene in minima parte, quando, nei flashback che rievocano i fatti di Chicago, inserisce brevissimi innesti di immagini girate in quei giorni, che si sovrappongono perfettamente alle ricostruzioni di finzione, con l’intento di donare veridicità alle sequenze degli scontri. Ma non è comunque quello il tema centrale de "Il processo ai Chicago 7", che è invece, per l’appunto, lo strascico giudiziario di quegli eventi e gli inevitabili retroscena politici. L’idea di mettere alla berlina i leader degli attivisti venne al procuratore generale insediatosi con l’amministrazione Nixon, molto probabilmente su suggestione giunta dallo stesso neo-inquilino della Casa Bianca, che, come dimostrerà in futuro, non si faceva certo scrupoli a giocare sporco con gli oppositori. Il tema politico è soltanto abbozzato da Sorkin (ma del resto basta davvero poco per farlo emergere) che si concentra invece principalmente sulla sua esplicita opera di scandaglio della società americana dell’epoca e delle divisioni che la tormentavano (e oggi le cose non è che siano cambiate, c’è da dire).
L’atteggiamento narrativo, tuttavia, è manicheo fino a un certo punto, ed è forse uno dei più interessanti risultati che Sorkin riesce a ottenere in fase di scrittura. È infatti rappresentata una variegata schiera di sfaccettature psicologiche (e, lato sensu, politiche), con caratterizzazioni soltanto tratteggiate (e non poteva essere altrimenti in un film corale come questo), ma decisamente efficaci. Si va dal giudice ottusamente conservatore (uno straordinario Frank Langella, a conti fatti, forse, il miglior interprete di un cast che conta tantissimi grandi nomi), al tutore della legge con gli scrupoli di coscienza (il procuratore Schultz, interpretato da un misuratissimo Joseph Gordon-Levitt), ai fanatici nixoniani che invece di scrupoli non se ne fanno minimamente (tutti personaggi secondari).
Dall’altra parte della barricata c’è tutto il ventaglio che va dal riformismo moderato, che vorrebbe operare nei binari della legalità (quello kennediano di Tom Hayden, un buon Eddie Redmayne), a quello più intransigente; si va dalla militanza utopica del personaggio interpretato da John Carroll Lynch a quella disillusa dell’avvocato degli imputati (un ottimo Mark Rylance); o ancora, dal rivoluzionarismo pacifista di stampo hippie (il Jerry Rubin di Jeremy Strong e, soprattutto, l’Abbie Hoffman di un eccezionale Sacha Baron Cohen, il più accreditato a finire in zona nomination per i prossimi Oscar) a quello violento delle Black Panthers (il Bobby Seale di Yahya Abdul-Mateen II, protagonista di una delle scene più raccapriccianti del film, che mette in mostra una delle pagine buie della storia giudiziaria americana).
Certo, c’è davvero tanta carne al fuoco, e alcuni temi vengono soltanto accarezzati (tra cui proprio quello della difficile convivenza tra le varie anime del progressismo) e altri toccati e abbandonati (il filone legato alle Black Panthers, ma del resto l’uscita di scena dal processo del loro leader-fondatore non poteva portare ad altro). Far convivere il tutto in una sceneggiatura convincente era impresa ardua, così come lo era riversare uno script del genere in un lungometraggio da 130 minuti di durata (che Sorkin riesce a far volare). E non a caso il film è rimasto nel development hell per oltre un decennio. Quella de "Il processo ai Chicago 7" è una vicenda produttiva sicuramente travagliata, per un film che avrebbe dovuto essere diretto da Spielberg, poi da Greengrass, ma che arriva infine nelle sale forse proprio nel momento storico più opportuno: l’anno delle grandi manifestazioni del Black Lives Matter, delle proteste contro gli abusi della polizia (tema anch’esso affrontato nel film) e dell’avvelenatissimo clima politico che porterà alle elezioni presidenziali americane, tra le più controverse della storia.
Sorkin raggiunge in pieno l’obiettivo, concedendosi anche qualche slancio brillante (i momenti esilaranti - ma mai inopportuni - sono diversi). E non si risparmia nemmeno sul fronte ideologico, sbilanciandosi senza troppe remore e confezionando un’opera fortemente politica, che se non ha i galloni del cinema militante europeo degli anni Sessanta e Settanta (il Costa-Gavras di "Z" è ovviamente inavvicinabile), di esso regala quel sano spirito di indignazione più di recente centellinato anche, con alterne fortune, dai vari Michael Moore, Oliver Stone e, diretti discendenti di quella stagione, Ken Loach e Nanni Moretti.
Fosse uscito nella comfort zone degli anni di Obama, "Il processo ai Chicago 7" avrebbe avuto tutt’altro significato e contesto, è evidente. Ma quando Sorkin tende quel sottile filo conduttore che lega l’amministrazione Nixon a quella attualmente al potere, facendo dire a Abbie Hoffman la frase clou dell’intero film - "Credo che le istituzioni della nostra democrazia siano straordinarie, ma che in questo momento siano in mano a persone orribili" - il regista fa emergere tutto il suo coraggio in una Hollywood che si dimostra liberal e progressista spesso soltanto sulla carta o quando c’è da mettere in campo petizioni di principio fini a se stesse. Perché Sorkin non è né Michael Moore, né Oliver Stone, se per caso ce lo fossimo dimenticati.
cast:
Sacha Baron Cohen, Eddie Redmayne, Joseph Gordon-Levitt, Yahya Abdul-Mateen II, Frank Langella, John Carroll Lynch, Mark Rylance, Jeremy Strong, Michael Keaton
regia:
Aaron Sorkin
titolo originale:
The Trial of the Chicago 7
distribuzione:
Lucky Red, Netflix
durata:
129'
produzione:
Marc Platt Productions, Dreamworks Pictures
sceneggiatura:
Aaron Sorkin
fotografia:
Phedon Papamichael
scenografie:
Shane Valentino
montaggio:
Alan Baumgarten
costumi:
Susan Lyall
musiche:
Daniel Pemberton