"Salva l’anima dalla spada, salva il cuore dal potere del cane"
"Il potere del cane" ("The Power Of The Dog") è il film con cui Jane Campion è tornata alla regia a 12 anni di distanza dal precedente "Bright Star", e con cui la cineasta neozelandese ha vinto il Leone d’Argento per la regia a Venezia 78. Il film, ellittico e allusivo, è un western ambientato nel Montana degli anni Venti del XX secolo, tratto da un romanzo del 1967 di Thomas Savage (adattato dalla stessa Campion), autore oggetto di una riscoperta recente anche in terra statunitense, dove pure, in ambito letterario, la narrativa western è sempre stata ben più apprezzata di quanto non sia successo all’estero, laddove, a differenza del cinema western, ha scontato fino a tempi recenti un certo pregiudizio.
Non è difficile capire perché Campion sia stata premiata per la regia. La scelta dei quadri è tanto elegante e precisa quanto appare sempre la messa in scena più naturale e logica per ogni sequenza. Con uso frequente di campi lunghissimi che esaltano lo scenario naturale (il film, peraltro, è stato girato in Nuova Zelanda), la macchina da presa resuscita la potenza immaginifica di cui è stato capace il miglior cinema classico hollywoodiano, in questo che è un western figurativamente bellissimo, che chiede - urla! - di essere ammirato su grande schermo a dispetto della produzione Netflix.
Anche tramite dolly smisurati, il senso di Jane Campion per la messa in scena si fa rapidamente sense of wonder: una meraviglia che vale però soprattutto perché si regge straordinariamente in contrasto con un costante senso di claustrofobia, cui provvedono alcuni scelti primissimi piani e alcuni dettagli (una pianta di fiori, una frusta riposta sotto un letto, un paio di incongrue scarpe bianche). Sono frequenti le simmetrie e i quadri dentro al quadro, varchi e cornici al di là dei quali si stagliano porzioni di paesaggio (memori delle celeberrime inquadrature inziale/finale di "Sentieri Selvaggi"). Anche la fotografia di Ari Wegner, che ricorre volentieri al controluce e si ferma a un passo dalla desaturazione del colore, concorre a questo senso di claustrofobia. E certamente vi concorre la partitura, prevalentemente di archi, di Jonny Greenwood, che trasmette trepidazione e ineluttabilità, facendosi suspense sottile.
Tutti elementi (claustrofobia, trepidazione, suspense, senso panico di ineluttabilità) che si accompagnano alla progressiva sospensione delle azioni e a una certa dilatazione narrativa, certamente in linea con stile e poetica della cineasta, ma che sembra anche consapevole delle incursioni western di Kelly Reichardt. S’instaurano relazioni sospese, rancori difficili da spiegare, tensioni trattenute, che al massimo trovano sfogo in uno strano duello musicale appena accennato, fra il piano di Rose (Kirsten Dunst) e il banjo di Phil (Benedict Cumberbatch), il cognato che la detesta, senza un apparente motivo, dopo che ne ha sposato il fratello (Jesse Plemons).
Non si vedessero alcune autovetture, si faticherebbe a immaginare novecentesco questo Montana cristallizzato nel tempo mitico del West; un West dove la frontiera è ormai colmata ma la modernità è rimasta lontana, e ha fatto del West periferia irrimediabile. Per certi versi, è già il Montana-badland immobile di oggi, "provincia cronica" descritto sempre da Kelly Reichardt in "Certain Women" (2016).
Così come l’enigmatico titolo, che richiama un verso della Bibbia ma anche l’ombra di certe colline (nonostante sia nitida, la somiglianza con il profilo di un cane che abbaia, pochi la vedono), così si mantiene nascosto il senso profondo del film, lasciandoci credere che vada cercato più negli interstizi e nelle allusioni, anziché in quel poco che appare esplicito. Stile e racconto - asciugati di pathos, seppur mai completamente - procedono per ellissi, per cenni e per indizi, intrisi di un afflato marcatamente descrittivo, più che narrativo.
Il cuore della vicenda rimane criptico, relegato fuori campo. Il senso deve intuirsi, emergere gradualmente e mai compiutamente. Sta qui la forza dell'opera. La capacità di far credere che le ragioni siano occultate altrove, raddensate e fittamente radicate nel passato. In ciò che è trascorso (e non viene raccontato da alcun flashback) e in tutto ciò che i personaggi non rivelano di sé.
Poi, sì: si può aggiungere che – come tanti western degli ultimi anni [1] – "Il potere del cane" è un western di uomini deboli, immaturi, lontanissimi dagli ormai usurati cliché del West. Ma non è nemmeno un film di donne: anzi, in controtendenza rispetto al passato, qui manca, in un film di Jane Campion, una figura centrale di donna. La Rose di Kirsten Dunst resta in ombra e lascia la scena, anche per la magnifica prova attoriale, a un personaggio complesso e sfumato come il Phil di Cumberbatch, che si rivela sorprendente nelle sue tensioni sottaciute e nelle sue pulsioni inespresse.
[1] A Campion non interessa illustrare la forza femminile in un contesto tipicamente maschile come quello western, come in tanti western recenti (sul tema, mi permetto di rinviare al mio "Fabbrica di sogni, deposito di incubi. Dieci anni di cinema USA, 2010-2019", di cui su Ondacinema ha scritto Giancarlo Usai).
cast:
Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst, Jesse Plemons, Kodi Smit-McPhee
regia:
Jane Campion
titolo originale:
The Power of the Dog
distribuzione:
See-Saw Films, Bad Girl Creek Productions, Max Films
durata:
126'
produzione:
Netflix
sceneggiatura:
Jane Campion
fotografia:
Ari Wegner
scenografie:
Grant Major
montaggio:
Peter Sciberras
costumi:
Kirsty Cameron
musiche:
Jonny Greenwood