Il thriller di maggior successo del 2023 in Cina approda anche sul grande schermo in Occidente dopo essere passato per Cannes LXXVI nella sezione Un Certain Regard: "Il mistero scorre sul fiume", terzo lungometraggio di Shujun Wei, si configura come un noir la cui visione suscita non pochi spunti di riflessione. Innanzitutto, rispetto al soggetto, ovvero il racconto breve “Errore in riva al fiume” (1992), tratto da una raccolta del conterraneo Yu Hua, uno dei più prolifici e affermati scrittori cinesi, il regista introduce nella sua opera la riflessione metacinematografica; la figura del protagonista è inoltre molto più sfaccettata; e infine il milieu culturale e sociale della Cina rurale conferisce uno sfondo più vivido alla vicenda e dà al film una maggiore rotondità artistica.
Mentre nel racconto di Hua il commissariato di polizia è un luogo anonimo e ridotto a fondale stilizzato, nel film assume uno spessore semantico determinante. Subito dopo l’incipit, infatti, si dice che la nuova sede dell’unità investigativa sarà un cinema dismesso. In tal modo accade che mentre i personaggi principali agiscono all’interno di un ex cinema, agli spettatori viene tacitamente suggerita l’artificiosità del racconto cinematografico e l’aleatorietà del giudizio che si può esprimere su di esso. La vecchia cabina di proiezione nella quale giacciono abbandonate le pellicole è diventato infatti l’ufficio del protagonista, il capitano Ma Zhe; sovente, quando l’ispettore superiore deve parlare ai suoi sottoposti, essi prendono posto in quelle che erano state le poltroncine per il pubblico; quando la porta del commissariato si apre, perfino dall’esterno si nota il graffito parietale di una macchina da presa. All’insistenza sulla dimensione finzionale del racconto in interni si contrappone, in esterni, la grande cura scenografica e fotografica che punta invece sul realismo: la presenza di un luogo fisico (il fiume) dove si ripetono una serie di delitti, la frequenza della pioggia, della nebbia e di una ambientazione brumosa che accentua l’adesione al codice noir e thriller.
Lo spessore del protagonista Ma Zhe è ottenuto grazie alla linea narrativa secondaria che rendiconta il suo difficile rapporto con la moglie, ulteriore clichè del noir, aspetto del tutto assente nel racconto di Yu. Zhe è un personaggio meditabondo, non si accontenta delle apparenze e la sua calma e il suo scrupolo lo contrappongono all’ispettore capo, un freddo burocrate, desideroso di chiudere in fretta un caso per il buon nome del partito, non importa se a discapito della verità. Nel racconto di Yu il grande assente è il contesto storico-sociale: una piccola città dalla quale emergano emblematicamente le sacche di arretratezza proprie della Cina rurale. Al contrario, la sceneggiatura del film risulta efficace in una duplice prospettiva, perché i particolari apparentemente trascurabili permettono agli investigatori di avvicinarsi alla verità e allo spettatore di scoperchiare il velo delle piccole ipocrisie sociali tenute insieme da vergogna e segretezza.
"Il mistero scorre sul fiume", tuttavia, non è tanto un thriller frenetico che incalza verso la soluzione, quanto un omaggio al genere, e per quanto detto ricorda "Chinatown" (1973) di Roman Polanski, "I senza nome" (1970) di Jean Pierre Melville, come anche "Memorie di un assassino" (2003) di Bong Joon-ho e "Fuochi d’artificio in pieno giorno" (2014) di Yinian Diao. Per il disvelamento del contesto socio-culturale rurale nel corso dell’indagine di polizia, il film di Shujun Wei ricorda "C’era una volta in Anatolia" (2011). Per quanto riguarda gli aspetti tecnici, la fotografia di Chengma Zhiyuan, il medesimo di "Fuoco nella pianura" (2021), grazie all’utilizzo della fotocamera digitale e al materiale girato in 16 mm, assume un’estetica granulosa che amplifica la sofferenza del protagonista. Ritratto nella locandina originaria con un’iconografia che ricorda “L’urlo” di Munch, il capitano Zhe è sempre più insicuro a mano a mano che diventa preda di visioni oniriche, con la conseguente confusione tra realtà e immaginazione. Le scene con regime narrativo debole sono segnalate musicalmente dal "Chiaro di luna" di Beethoven. Uno dei pregi del film sono le inquadrature pregnanti nelle quali il singolo si contrappone al gruppo, come quando Zhe siede in disparte pensieroso, mentre i suoi colleghi giocano a ping-pong.
Nella catena di delitti che coinvolgono gli abitanti della piccola città di Banpo, l’unico testimone a sapere tutto ma che non può parlare è il fiume, un po’ come il "Mystic River" (2003) di Clint Eastwood. Il suo lento scorrere e la sua consistenza liquida sono emblema della mutevolezza delle impressioni e della labilità del giudizio umano. Inoltre, quando gli inquirenti si muovono a piedi lungo le acque fluviali per cercare indizi utili, viene rievocata l’antica tradizione sinica del richiamo della pioggia che, come detto, è l’altro elemento naturale ripetutamente presente nel film. L’intera pellicola è permeata del senso di liquidità e mutevolezza del reale. La piccola città è alle soglie di un mutamento epocale: la ruspa che demolisce i vecchi edifici nell’incipit prelude alla fine di un mondo in cui il vecchio, come ad esempio il ritrovamento di un’audiocassetta o il ricorso alle carni animali per saggiare la tipologia dell’arma del delitto, sembra sul punto di scomparire per sempre. Sotto questo aspetto, il parallelo cinematografico più immediato da fare è con "Still Life" (2006).
cast:
Tong Linkai, Tianlai Hou, Chloe Maayan, Yilong Zhu
regia:
Wei Shujun
titolo originale:
He bian de cuo wu
distribuzione:
Wanted Cinema
durata:
101'
produzione:
Hangzhou, Dangdang Film, KXKH Film
sceneggiatura:
Yu Hua, Chunlei Kang, Wei Shujun
fotografia:
Chengma Zhiyuan
scenografie:
Chang Menglun
montaggio:
Matthieu Laclau
costumi:
Chao Su