Sono diversi anni che il cinema iraniano ci ha abituati a pellicole che non ci sentiamo più di definire inaspettate sorprese, bensì piacevoli conferme. Mohammad Rasoulof è ormai entrato nel novero dei registi più affermati, insieme a Mohsen Makhmalbaf, Abbas Kiarostami e Ashgar Farhadi. Rasoulof ha esordito nel 2002 con "Gagooman", mentre dopo "Le bianche distese" (2010) è stato prima arrestato sul set e poi condannato a sei anni di carcere, successivamente ridotti a uno. Rilasciato su cauzione, gli è stato comunque requisito il passaporto, tanto che non ha potuto ritirare personalmente né il premio a Cannes per la miglior regia nella categoria Un Certain Regard per "Lerd" (2017), né il più recente Orso a Berlino per "Il male non esiste" (2020).
Anche le vicissitudini realizzative di quest’opera sono l’esito del difficile rapporto tra le autorità iraniane e il regista di Shiraz, per il quale vige un divieto formale di girare film. Sono stati così i suoi assistenti a dare corpo alle sequenze urbane del film, mentre Rasoulof si è occupato di quelle ambientate nelle campagne, al riparo dall’occhiuta presenza della censura. Il male non esiste è infatti una pellicola che si articola su diverse location in quanto costituita da quattro episodi autonomi, ascrivibili a differenti generi cinematografici e raccordati unicamente dall’affinità tematica. Rinunciando a esplicite coordinate geografiche e a circostanziati riferimenti cronologici, ma, ancor di più, differenziando le ambientazioni, Rasoulof dà al tema affrontato una dimensione assai sfaccettata, ben più ampia di quella nazionale, arrivando al cuore dello spettatore attraverso domande di carattere universale. Al centro del film è la riflessione sulle scelte, sulle implicazioni morali e sulle conseguenze che queste determinano nei confronti della propria coscienza e nel rapporto coi propri simili. Più specificatamente, è come se il regista, scomparendo dietro la macchina da presa, inducesse lo spettatore prima a identificarsi con i protagonisti dei quattro episodi e poi (implicitamente) a rispondere su cosa avrebbe fatto se costretto dalle leggi dello stato a eseguire personalmente la condanna a morte di un cittadino. Come è noto, l’Iran, in rapporto alla popolazione, detiene il triste primato delle sentenze capitali, e l’evenienza contemplata nel film è tutt’altro che inusuale, considerato che sono i militari di leva a dover eseguire le condanne e che la ferma dura due anni. A ciò si aggiunga il fatto che pur essendoci la possibilità di evitare tale obbligo, chi voglia farlo perde, tra l’altro, il diritto di avere la patente di guida e quello di varcare i confini nazionali.
Il primo episodio, sicuramente il più riuscito, intitolato "Il diavolo non esiste", è una sorta di studio sociale, di indagine piuttosto ravvicinata, anche in fatto di inquadrature, su una famiglia costituita da due quarantenni e dalla loro figlia, i quali conducono un’esistenza apparentemente monotona, ovattata e priva di scossoni, alternando la normale affettività agli acquisti nei supermercati. Sarà un’unica e rapida inquadratura finale a rivelare l’origine del benessere socioeconomico del nucleo familiare. È un vero colpo da maestro quello scelto da Rasoulof, una soluzione degna dei grandi registi, di coloro che sanno usare il medium cinematografico prescindendo, quando occorre, dalla parola; ma siamo anche di fronte a una conclusione che, sul piano letterario, ricorda quelle di O. Henry, ovvero William Sydney Porter, passato alla storia come il principe degli epiloghi ad effetto. Per il resto, questo primo episodio si caratterizza, sul piano della scrittura, per le inquadrature che stringono sulla coppia soprattutto quando si trovano in auto. I due vengono ripresi in piano sequenza e frontalmente con la camera fissa collocata anteriormente e che, escludendo gran parte dello sfondo, costringe lo spettatore a confrontarsi con lo sguardo sereno ma assente, pacato ma silente dei protagonisti. Questa grammatica di regia è una sorta di marchio di fabbrica di tanta cinematografia iraniana e che abbiamo già visto in diversi suoi esponenti: nell’Abbas Kiarostami di "Copia conforme" (2010), "Il sapore della ciliegia" (1997) o "Dieci" (2002), così come nel Jafar Panahi di "Taxi Teheran" (2015) o "Tre volti" (2018), ma anche nel Reza Markarimi di "Il castello dei sogni" (2019). Nel primo episodio del film di Rasoulof, tuttavia, questo tipo di inquadratura svolge una funzione espressiva, più che descrittiva; più che essere un clichè sostanzia infatti l’isolamento della coppia, elevando l’automobile a prolungamento del carcere nel quale Heshmat presta servizio. In altri termini, è il segno che la realizzazione socioeconomica ha un’altra faccia della medaglia. Ulteriore caratteristica di questo episodio è il ricorso al valore simbolico dell’acqua, che ritornerà nel terzo episodio: la doccia è una sorta di tentativo di dilavare una colpa. È un gesto riscontrabile, ad esempio, nel finale del docufilm "Bosnia Express" (2022), di Massimo D’Orzi.
Passando al secondo episodio del film, dal titolo "Lei ha detto: lo puoi fare", si tratta di una sorta di dittico rispetto al primo, concepito in modo molto diverso: è una sorta di thriller di stampo teatrale, con l’atmosfera inizialmente tetra di un carcere e un lieto fine in esterno giorno, con un campo lunghissimo e su cui si staglia una grande città. Qui a dover fare da carnefice è un giovane soldato di leva, Pouya, il quale però, giunto al momento fatidico sembra soffrire più del condannato a morte! Tanto che a quel punto, in combutta con la ragazza che ama e con la quale vorrebbe lasciare il paese, fa scattare il proprio piano di fuga. In definitiva, il protagonista è, per antifrasi, il vero prigioniero, la vera vittima del sistema.
Nel terzo episodio, il cui titolo è "Compleanno", ancora una volta Rasoulof si diverte a rimescolare le carte. La forte somiglianza del protagonista Javad (anch’egli soldato di leva) con quello dell’episodio precedente, sembra inizialmente dare alla vicenda una logica continuativa rispetto a quella appena conclusa. Ma qui l’atmosfera è profondamente diversa: le note di "Bella Ciao" su cui si era concluso l’episodio precedente sembrerebbero adatte a fare da giusta cornice anche al ritorno in paese di Javad, che grazie a una licenza di tre giorni si appresta a cogliere il compleanno della sua amata come occasione per proporle il fidanzamento. E invece gli unici suoni che percepiamo sono quelli di un lussureggiante paesaggio boschivo solcato dalle placide acque di un torrente in cui il giovane non rinuncia a immergersi, come a battezzarsi, a presentarsi in una veste migliore di quella che lo spettatore, ripensando per parallelismo all’episodio di Pouya, può immaginare. È come se il regista stendesse sulla vicenda una rete di mistero, di trepida attesa. Giunto al villaggio, Nana, la ragazza, gli rivela che la festa di compleanno sarà come annullata, sostituita dal ricordo di un amico di famiglia da poco scomparso. Il fitto mistero, che a causa della reticenza sembra avvolgere ora lo sconosciuto, alimenta dapprima comprensibili sospetti nel giovane, il quale però farà ben presto la peggiore delle scoperte. E anche in quest’occasione, come per il primo episodio, Rasoulof si rivela maestro in grado di regalarci del buon cinema: con due sole inquadrature e senza una parola. Da questo momento il dramma si tinge di mèlo, e la conclusione è invertita rispetto all’episodio precedente. Al tema della scelta e delle implicazioni morali che questa comporta si fonde quello del giudizio altrui. Ancora una volta con un procedere per antitesi, le azioni compiute per ottenere un beneficio si traducono in un danno irreparabile. Rasoulof, nella seconda parte dell’episodio, piegando il simbolismo dell’acqua alla perdita di autostima di Javad, la risemantizza: in essa il protagonista non cerca più una risorsa sulla via della purezza bensì la soluzione estrema a un’esistenza diventata intollerabile.
Nel quarto e ultimo episodio, una coppia di quarantenni, Bahram e la moglie Zaman, ricevono la visita della nipote, la ventenne Darya, che vive da tempo in Germania. Nella prima parte del racconto il vero motivo per cui il padre ha spinto la figlia a recarsi in Iran e conoscere gli zii è una sorta di segreto. Ancora mistero, dunque. Al momento della rivelazione, difficilissimo per Bahram, emerge stavolta un gesto di coraggio compiuto molti anni prima: il rifiuto di farsi esecutore di una condanna capitale, con le conseguenze negative sul piano socioeconomico che quell’atto ha comportato. Conseguenze che Darya non accetta. Ecco l’interrogativo per lo spettatore del film: fino a che punto si può essere coerenti con i propri principi? Il quarto episodio, dunque, chiude il cerchio intorno al tema prescelto dal regista. Il finale è aperto: Rasoulof non giudica perché lascia che siano gli spettatori a farlo. L’episodio conclusivo si caratterizza per una ambientazione molto diversa da quella degli altri: i protagonisti vivono in un’abitazione che sorge in un’area isolata, brulla, in una sorta di deprivazione non solo sociale ma anche degli elementi naturali, espressa dal lungo tragitto iniziale dall’aeroporto verso casa. Bahran e Zaman scontano le loro “colpe” vivendo, direbbe Calvino. Senza le ricchezze e gli agi che un’acquiescenza al regime avrebbe garantito, verrebbe da aggiungere.
In conclusione, si può dire che Rasoulof, sul piano della scrittura, segue la tradizione realista del cinema iraniano contemporaneo grazie alla concretezza espressa tanto dal grigiore della fotografia del carcere quanto da quella dei paesaggi. Egli ricrea un mood che più che alla poetica di Kiarostami lo accosta all’Ashgar Farhadi di "Il cliente" (2016) o "Tutti lo sanno" (2018), con la sensazione che qualcosa di inquietante, come anche un segreto possa irrompere e sconvolgere l’esistenza dei personaggi, negando loro la possibilità di riottenere in modo palindromico la felicità. Non tutti e quattro gli episodi hanno la medesima compiutezza artistica, ma il regista, intervallando le feste e i momenti di convivialità riesce a dare alla tensione narrativa un andamento sinusoidale che tiene sempre il testo filmico a distanza di sicurezza dalla monotonia. Altra curiosità, "Il male non esiste" è un film diretto da un regista musulmano che parla del rispetto per la vita, includendo anche quella degli animali, visto che, con uno spirito che definiremmo cristiano, buddhista o giainista, il profilmico è popolato di gatti, volpi e api.
cast:
Ehsan Mirhosseini, Kaveh Ahangar, Mohammad Valizadegan, Mohammad Seddighimehr, Mahtab Servati, Masoud Tosifyan, Zhila Shahi, Baran Rasoulof
regia:
Mohammad Rasoulof
titolo originale:
Sheytan vojud nadarad
distribuzione:
Satine Film
durata:
151'
produzione:
Cosmopol Film, Europe Media Nest, Film Iran
sceneggiatura:
Mohammad Rasoulof
fotografia:
Ashkan Ashkani
scenografie:
Saeed Asadi
montaggio:
Mohammadreza Moueini
costumi:
Afsaneh Sarfehju
musiche:
Amir Molookpour
Primo episodio. Perfino moglie e figlia ignorano i dettagli della mansione che il capofamiglia Heshmat svolge all'interno del carcere nel quale si reca nel cuore della notte.
Secondo episodio. Il soldato di leva Pouya, accordatosi preventivamente con la ragazza, fugge dal carcere per evitare di essere l'esecutore materiale della pena capitale.
Terzo episodio. Il soldato di leva Javad ottiene una breve licenza e ritorna da Na'Na, la ragazza, in occasione del suo compleanno. Na'na, appreso che Javad è stato il responsabile della esecuzione della sentenza di morte contro un caro amico di famiglia, lo lascia.
Quarto episodio. Darya, ventenne di origine Iraniana, lasciata la Germania torna in patria per far visita a Bahram e Zaman, che le sveleranno di essere non i suoi zii ma i suoi veri genitori. Emerge così che in seguito al rifiuto del capofamiglia di farsi esecutore materiale di una sentenza di morte, molti anni prima le autorità lo avevano privato dei privilegi socioeconomici che gli avrebbero permesso di allevare la figlia.