Desolazione invernale
in un mondo d'un solo colore
il suono del vento
Bashō
Una meditazione
Dopo la collaborazione per le musiche di "Drive My Car", Eiko Ishibashi ha chiesto a Ryūsuke Hamaguchi di girare dei visual per accompagnare i suoi spettacoli dal vivo. Andato a fare scouting nella zona in cui Ishibashi vive, il regista s'innamora dei luoghi e prende forma l'idea di un lungometraggio. Trionfatore agli Oscar e divenuto un regista dal richiamo internazionale, con "Il male non esiste" Hamaguchi sembra tornare agli esordi da cineasta appartato e indipendente, procedendo in direzione contraria rispetto all'articolazione e alla letterarietà dell'opera precedente.
All'ottantesima Mostra del cinema di Venezia, dove il film è stato presentato in concorso, si è subito parlato di "Il male non esiste" in relazione all'attualità del tema ecologista definendolo una folk-tale ambientalista. L'opera di Hamaguchi è in realtà un oggetto filmico ben più profondo e misterioso la cui emissione del messaggio resta sibillina. La questione ambientale è sì presente ma da collocare all'interno della cultura giapponese e dell'origine shintoista di questa. Secondo lo shintō la natura e ogni fenomeno naturale sono la manifestazione di forze divine, dette kami, numi potenzialmente presenti in ogni cosa, rappresentanti di una dimensione divina imperfetta, talora benevola, talora capricciosa e malevola. La comunità di Mizubiki, come peraltro più volte viene ribadito, sente la responsabilità della propria posizione - "ciò che succede in cima scende a valle" dice il sindaco - e ritiene importante difendere un equilibrio naturale messo a repentaglio dagli uomini - più volte si sente l'eco di uno sparo - e dall'erosione capitalista. Dunque, "Il male non esiste" è in primo luogo una meditazione sul delicato rapporto tra uomo e paesaggio nell'antropocene.
Una rottura
Il film è ambientato a Mizubiki, un paesino a un paio d'ore da Tokyo. Tra gli abitanti ci sono Takumi, un tuttofare per il quale i boschi e la montagna non hanno segreti, e la sua bambina Hana, che in quei boschi ama perdersi. La vita scorre placida e tranquilla secondo i ritmi naturali, quando un'agenzia dello showbusiness presenta al villaggio il progetto di un glamping (crasi tra "glamourous" e "camping", un campeggio di lusso). Dopo l'introduzione da parte di due impacciati agenti, alcuni abitanti di Mizubiki, tra cui Takumi, sottolineano le criticità, in particolare quella che concerne la posizione della fossa settica che contaminerebbe il bacino idrico che poi scende a valle.
Il nodo drammaturgico di "Il male non esiste" si esaurisce fondamentalmente in un problema di comprensione reciproca, esposto con l'usuale forza dialettica dal regista. Con alcune sequenze puramente hamaguchiane, l'autore mostra come non vi sia un reale conflitto tra le persone, bensì una frattura tra due comunità spinte da motivi ideologici antitetici. La prima scena chiave è la suddetta riunione comunale in cui Takahasi e la sua giovane collega Mayuzumi presentano il progetto di glamping, prestando il fianco alle critiche e dimostrando di non essere esperti del settore. La seconda è una conversazione in macchina tra loro due mentre stanno facendo ritorno a Mizubiki, per convincere Takumi ad aiutarli: i due agenti concordano con le perplessità degli abitanti locali che vorrebbero supportare, anche perché attratti dai ritmi della vita rurale; devono, però, eseguire gli ordini del loro capo in quanto il meccanismo burocratico che prevede la richiesta dei finanziamenti postpandemici è già partito. Lampante anche la discontinuità nella comunicazione tra i due gruppi di personaggi: diretta quella degli abitanti di Mizubiki, riuniti a un tavolo o comunque in situazioni di prossimità; mediata da una proliferazione di schermi e display a Tokyo, dove anche i lavoratori dell'agenzia presenti nella stessa stanza comunicano in videochiamata insieme al loro consulente (l'unico che sta effettivamente da un'altra parte).
Sul piano narrativo lo sviluppo è minimale ed è difficile individuare un arco dei personaggi, contravvenendo a quelle regole da scuola di scrittura che dettano legge nella serialità e sono travasate nel linguaggio cinematografico, spesso strangolando il cinema in una elementare grammatica ad uso e consumo di storie didascaliche e prive di ulteriori livelli di lettura. Un elemento irriducibile del film di Hamaguchi è invece l'intangibilità del proprio mistero, un'ambiguità che sin dal titolo scorre e impregna una messa in scena limpida solo all'apparenza. Del resto "Il male non esiste" squaderna, con la piana forza dell'acqua che frantuma i sassi, un linguaggio di rottura rispetto all'ultima produzione del regista. Pur conservando gli assi formali imprescindibili della sua arte, Hamaguchi individua un nuovo ambiente ma anche una diversa geografia umana ed emozionale da esplorare.
L'haiku
"Il male non esiste" si apre con dieci minuti di immagini purissime scandite dallo score di Ishibashi e, soprattutto, dai suoni della natura: il fruscio delle fronde, lo scorrere di un ruscello, i tonfi sordi di ceppi di legno tagliati, il respiro leggermente affannato del protagonista. I gesti quotidiani immersi nella maestosità della natura ricordano "L'isola nuda", poema umanista di Kaneto Shindō in cui i personaggi sono ripresi mentre svolgono le loro mansioni: in "Il male non esiste", però, acquisiscono centralità gli elementi naturali e la regia di Hamaguchi si concentra sulla ricerca di un punto di vista inedito, a partire dall'iniziale carrellata contro-plongée sulle chiome degli alberi mossi dal vento, un'immagine che riproduce il ritmo del respiro naturale. Poco dopo Takumi nota del wasabi selvatico e il controcampo inquadra gli uomini dal punto di vista della pianta; ancora successivamente una (falsa) soggettiva si rivela essere una camera-car. In seno a tale ricerca, alcuni raccordi di montaggio risultano spiazzanti in quanto segno di uno slittamento di prospettiva in cui la macchina da presa si incrocia quasi casualmente con la presenza umana e il punto di vista pare coincidere con gli elementi della natura stessa.
Per un regista da sempre attento alla composizione audiovisiva, ne "Il male non esiste" oltre al flusso visivo assume un ruolo sostanziale anche quello sonoro, vista la particolare relazione che le immagini intrattengono con le partiture di Eiko Ishibashi. Il lavoro della musicista potenzia il lirismo del paesaggio ma contiene inarcazioni e pulsazioni che hanno la risonanza del presagio, di territori narrativi inquieti non immediatamente svelati dalla macchina da presa. L'intervento delle musiche che vengono elise di netto dal montaggio sonoro è di tipo godardiano, seguendo una logica esterna della concatenazione audiovisiva e dimostrando "una volontà tutta differente di scrittura 'letteraria' e di frammentazione esistenziale in 'impressioni', in piccoli haiku sensoriali"[1]. A tal proposito, appare evidente come Hamaguchi abbia lavorato alla forma di questo film pensando alla peculiare composizione dell'haiku, segnato dal kireji (la "parola che taglia"), una sorta di interruzione che lega due versi e quindi due immagini distanti. Il taglio, kire, insieme al contiguo kire-tsuzuki (taglio-continuità), è una categoria fondante dell'estetica giapponese e Hamaguchi la rielabora nel lavoro sulle cesure, ossia i già analizzati slittamenti di prospettiva e i tagli del montaggio sonoro che hanno un riverbero narrativo.
La conclusione ha un andamento in crescendo, speculare rispetto all'incipit: le scene e le situazioni sono simili (Hana vaga nel bosco, Takumi attinge l'acqua della sorgente aiutato da Takahasi e Mayuzumi), ma il ritmo impresso alle inquadrature e l'atmosfera prodotta diverge. Questi quadri bucolici in larga parte contemplativi rammentano il cinema di Andrej Tarkovskij: in fondo se Takumi il tuttofare (la traduzione del nome sarebbe "maestro artigiano") è una sorta di custode e guida di quei luoghi, la forza attrattiva e trasformativa dei boschi possono corrispondere alla Zona di "Stalker". Il simbolismo, nel corso del film, si ispessisce e per Tarkovskij il "simbolo" era sinonimo di "immagine" che esprime, attraverso il linguaggio arcano e magico dell'allusione, una molteplicità significati remoti rimanendo comunque ineffabile.
"Il male non esiste" ha sul finale una deflagrazione che sprigiona le tensioni e le angosce accumulate. Gli indizi disseminati compongono un puzzle di suggestioni a cui manca una tessera: le immagini ieratiche di quadri innevati e le carrellate sulle chiome degli alberi sono un invito a smarrirsi, perché chi legge "l'haiku deve dissolversi in esso come ci si dissolve nella natura, sprofondare in esso, perdersi nelle sue profondità come nel cosmo dove non esistono né basso né alto"[2]. Come un haiku anche "Il male non esiste" ha una forma aperta, irriducibilmente ambigua. Un enigma, trasparente.
[1] M. Chion, L'audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino, 2017, p. 60.
[2] A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano, 1988, p. 98.
cast:
Hitoshi Omika, Ryō Nishikawa, Ryūji Kosaka, Ayaka Shibutani, Hazuki Kikuchi, Hiroyuki Miura, Yuto Torii
regia:
Ryūsuke Hamaguchi
titolo originale:
Aku wa sonzai shinai
distribuzione:
Tucker Film, Teodora Film
durata:
106'
produzione:
NEOPA Inc.
sceneggiatura:
Ryūsuke Hamaguchi
fotografia:
Yoshio Kitagawa
scenografie:
Masato Nunobe
montaggio:
Ryūsuke Hamaguchi, Azusa Yamazaki
musiche:
Eiko Ishibashi