Da Murakami ad Hamaguchi: il suono della voce di lei
"Asako I & II", adattamento del romanzo di Tomoka Shibasaki, conteneva nelle sue discese oniriche echi di Haruki Murakami. Forse per questa ragione i produttori propongono subito dopo a Ryûsuke Hamaguchi di confrontarsi direttamente con il celebre scrittore giapponese. La sua scelta ricade su uno dei racconti meno sintomatici di Murakami, "Drive My Car", che apre la raccolta di "Uomini senza donne" (2014). Potremmo asserire che il cuore della vicenda rimanga inalterato: Yûsuke Kafuku, un attore vedovo, crea una relazione simil-filiale con Misaki Watari, la giovane autista che ogni giorno lo porta a teatro dove sta mettendo in scena "Zio Vanya" di Anton Čechov. La scansione narrativa, il ruolo del teatro, le motivazioni dei personaggi e la loro moltiplicazione sono però coessenziali al lavoro di appropriazione del regista, che estende e rimodula i confini della fonte letteraria. Nel prologo lungo una quarantina di minuti che apre il film, viene data forma autonoma a molti dei ricordi e dei discorsi che Kafuku fa in macchina con Misaki, svolgendo la funzione di premessa (pressoché esaustiva) atta all'organizzazione di quelli che sono i segni e i temi che verranno sviluppati dopo i titoli di testa.
Fig. 1: donne murakamiane dal tramonto all'alba (a sinistra "Burning", a destra "Drive My Car")
Il film inizia su un'inquadratura suggestiva filmata al confine tra la notte e il giorno i cui colori vediamo dalla larga finestra posta in secondo piano: in primo piano, in controluce, una donna si alza mettendosi seduta sul letto (fig. 1). Se l'atmosfera languida e sensuale ricorda la danza al tramonto di Hae-mi in "Burning", qui la figura di donna prende la parola raccontando di una ragazza che trova un modo per intrufolarsi nell'appartamento del compagno di classe di cui è innamorata, lasciando di volta in volta una traccia occulta del proprio passaggio. La storia è contenuta in "Shahrazād", altra short story di "Uomini senza donne"[1] che Hamaguchi incorpora nel film collegandola al rapporto tra Yûsuke e la moglie Oto. Come spiegherà successivamente l'uomo, giunta sull'orlo dell'orgasmo, Oto afferra il filo di una storia iniziando a narrare: il compito del marito diviene quello di memorizzarla, affinché lei possa trarne il soggetto di una futura sceneggiatura.
Come avevamo detto a proposito del precedente "Il gioco del destino e della fantasia", Hamaguchi saggia il potere seduttivo ed erotico della parola; lo stesso Kafuku ammette che il sesso coniugale s'intrecciava spesso ai racconti di Oto. Quando la donna scompare alla fine del prologo, rimane come pura voce: Oto in giapponese significa suono, rumore e la donna, persa la propria corporeità, resta come personaggio acusmatico (adoperando la terminologia di Michel Chion[2]), che ripete le parole registrate in una cassetta (un altro supporto fisico, analogico e non digitale) riascoltate continuamente dal protagonista (fig. 2). Lo spazio domestico si dissolve e di esso rimane soltanto un ricordo incistato nel sogno: quando il protagonista si risveglia di soprassalto è nella sua Saab 900 rossa, la nuova casa in cui protrae la sua prossimità verso la moglie.
Quando a Hiroshima, oltre al ruolo di regista per il Festival della cultura, gli viene offerta anche un'autista, Kafuku tentenna e istintivamente rifiuta. Suo malgrado accetta la presenza della giovane Misaki: è un'intrusione, un terzo incomodo al quale dovrà abituarsi. Misaki guida però sorprendentemente bene, riuscendo a scivolare nella sua routine quotidiana con una presenza composta di silenzi e sguardi. Misaki è un altro da sé precocemente precipitata nell'autunno della vita che, sulle strade di Hiroshima, deve compiere un parallelo viaggio di elaborazione delle proprie cicatrici.
Fig. 2. Il processo di acusmatizzazione di Oto: prima corpo e sguardo, poi il suono della sua voce che si diffonde nell'automobile.
Se all'inizio Kafuku recita (in "Aspettando Godot" di Beckett), in gran parte della seconda parte si limita al ruolo di regista: perduto il potere di guidare, dirige gli altri ma non se stesso. Il ruolo di Vanya (che ha già interpretato) ha un peso per lui insopportabile e lo assegna a Kôji Takatsuki, un attore più giovane che è stato l'ultimo amante di Oto. Sulle motivazioni di tale scelta (vendetta, fascinazione o desiderio di testare i limiti del suo talento) Hamaguchi resta ellittico. Takatsuki da par suo resta un enigma, una sorta di guscio vuoto su cui il protagonista riflette la propria immagine distorta intravedendo un altro custode della memoria di Oto, un altro che ha però davvero incrociato lo sguardo perennemente altrove della donna.
Zio Vanya
Il teatro come altre arti performative nasce e si sviluppa in seno a riti misterici e sacri. Il metodo di Yûsuke Kafuku consiste nel riportare la rappresentazione teatrale alla sua dimensione di rito magico e, per condurlo in questi territori, Hamaguchi inserisce un elemento ricorrente della propria produzione, ossia la lettura di un testo letterario - avveniva sia in "Intimacies" (2013), sia in "Happy Hour" (2015). In "Drive My Car" le linee di dialogo della pièce di Čechov vengono messe in circolo prima nelle cassette registrate da Oto, in un secondo momento dal cast che le deve ripetere in interminabili sedute di lettura collettiva. Una delle attrici più anziane viene inquadrata dal regista mentre di soppiatto spettegola coi colleghi sulla noia indotta dalla monotonia di quel lavoro: "Sembra di ascoltare un sutra". Kafuku impone una lettura meccanica priva di intonazione e di enfasi, riducendo il testo di "Zio Vanya" a puro significante, una catena fonetica ripetuta ogni giorno: il lavoro con attori stranieri che recitano nella rispettiva lingua madre (coreano, mandarino, filippino, giapponese e lingua dei segni) acuisce la sensazione di spaesamento, poiché nessun interprete capisce realmente le battute dell'altro (fig. 3). Quando la taiwanese Janice chiede di avere più indicazioni così da poter fare meglio, Kafuku risponde secco che non è necessario fare meglio: "Limitati a leggere il testo".
"Drive My Car" sublima quindi l'idea di interpretazione che appartiene alla ricerca cinematografica di Hamaguchi: da sempre interessato allo iato tra sincerità verso se stessi e aderenza al proprio ruolo sociale, il regista (sia dentro che fuori dal film) è consapevole che "il ruolo richiede interpretazione ma l'interpretazione esclude immedesimazione, poiché l'interprete è sempre interpres, mediatore"[3]. Per scardinare questa linea di demarcazione e accedere alla totale immedesimazione, è necessario individuare innanzitutto il ritmo dialogico così da riconoscere il tempo giusto in cui intervenire, rispondendo emotivamente agli altri (attori) e concedendosi al testo. Si assiste all'evoluzione della parola che, emessa meccanicamente all'inizio, viene in seguito teatralizzata quando il regista stimola i suoi attori a "muoversi un po'". La performance restituisce corporeità alle parole e lo spazio scenico prima statico (gli attori stavano seduti) viene drammatizzato, consegnando un significato nuovo e personale creato dalle loro interazioni. "Zio Vanya" non diventa solo il commentario alla parabola umana dei personaggi protagonisti ma il vettore attivo per mezzo del quale Hamaguchi realizza la saldatura tra teoria e prassi della propria poetica.
Fig. 3: la lettura del testo secondo Hamaguchi in "Intimacies" (sopra) e "Drive My Car" (sotto).
Intimacies
Secondo il filosofo Byung-Chul Han, siamo storditi dall'ipercomunicazione digitale, in quanto essa "distrugge invece sia il tu sia la vicinanza, le relazioni sono sostituite dalle connessioni. L'assenza di distanza prende il posto della vicinanza"[4]. La comunicazione è la vera ossessione del cinema di Hamaguchi: la rete delle relazioni, i modi in cui le persone comunicano, l'autenticità di queste comunicazioni. In "Happy Hour" il personaggio di Ukai organizza un seminario il cui fine è quello di provare modi alternativi per connettersi agli altri: poggiarsi schiena contro schiena, fronte contro fronte, ascoltare i rumori intestinali. In "Drive My Car" il terreno di mediazione si sviluppa intorno alle prove della pièce. La lettera čechoviana diventa scaturigine di rimossi ed emozioni sincere: quando Janice e Yoon-a provano nel parco accade qualcosa di indecifrabile che deve essere imparato e condiviso col pubblico.
In questo lungo congedo dal postmoderno, appare chiaro che il cinema di Hamaguchi risponde a esigenze diverse e profondamente contemporanee. Se nel postmoderno era assodato che l'immagine fungesse da rappresentazione di un'altra immagine, "tale da esautorare qualsiasi possibilità di autenticazione della realtà per mezzo delle immagini"[5], Hamaguchi è alla ricerca di un'immagine cinematografica che autentichi la realtà delle emozioni dei suoi personaggi, imprimendovi i moti segreti dell'anima.
Laddove "Happy Hour", punto archimediale della prima fase di carriera rigorosamente indipendente, omaggiava (e in qualche modo accomiatava) il modello di John Cassavetes, "Drive My Car" è la summa di un regista che ha ormai riassorbito qualsiasi influenza e, al di là di alcune criptomnesie cinefile, ha sottoposto il proprio stile a un processo di sfrondamento fino a conseguire una essenzialità limpida e apparentemente trasparente.
La trasparenza è il distillato di un lessico cinematografico che si affida a una purezza francescana, con pochi elementi che fungono da mantra visivo. L'uso di focali lunghe e medie permette a Hamaguchi di lavorare sulla scala dei campi per le inquadrature che ospitano numerosi personaggi e per le scene performative, mentre le mezze figure e i primi piani riempiono lo schermo sovrastando lo sfondo. In questa pratica che sarebbe piaciuta a Ozu, la regia accompagna e sostiene il rito che deve essere allestito, giocando su distanze e prossimità (fig. 4). I campi larghi (e lunghi) dello spazio scenico si oppongono ai piani stretti dello spazio ridotto dell'abitacolo della Saab, luogo di rivelazioni e confessioni private in prolungati campi e controcampi. Misaki e Yûsuke, dapprima seduti l'una davanti e l'altro dietro, progressivamente si avvicinano finché l'inquadratura di due mani sporte dal finestrino non certificano l'instaurarsi di una complicità.
Fig. 4. Distanze e prossimità in Ozu e Hamaguchi: sopra "Il sapore del tè al riso verde" e "Tarda primavera", sotto "Drive My Car".
Susan Sontag notava come nell'età contemporanea l'arte fosse diventata la metafora più attiva di un progetto spirituale. In tale ricerca l'ultima tentazione dell'artista è il silenzio, che naturalmente raramente coincide con un silenzio effettivo, poiché l'artista continua comunque a comunicare[6]. In "Drive My Car" ci sono due scene silenti. La prima è l'ingresso della Saab rossa nell'isola di Hokkaido: i rumori di scena (in particolare quello del motore e del battistrada sull'asfalto) improvvisamente vengono elisi, per lasciare il posto all'incedere sospeso in quello che appare come paesaggio interiore di Misaki e Kafuku. Il secondo è il finale dello "Zio Vanya", messo in scena quasi integralmente attraverso il linguaggio dei segni. Nel momento di massima tensione emotiva della pièce (una scena che abbiamo già ascoltato nel film), non sentiamo nulla, eppure accediamo al reale senso delle parole di Čechov: i segni divengono una coreografia gestuale di commovente espressività. "Che vuoi farci, bisogna vivere! Noi, zio Vanja, comunque vivremo…", dice Sonia e sul volto stordito e triste di Vanya/Kafuku riluce la catarsi quale possibilità di un ritorno alla vita, che può anche essere dono per gli altri.
"Drive My Car" realizza allora la fondazione di un linguaggio nuovo e assoluto che esorbita le barriere linguistiche, un linguaggio fondato sulla performance, sul mistero invisibile di gesti e parole che creano relazioni e intimità.
[1] La scena della scoperta dell'infedeltà della moglie è invece un prelievo da "Kino", un altro racconto proveniente dalla stessa raccolta.
[2] Cfr. M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino, 2017, pp. 87-8. Chion scrive: "Acusmatico (...) significa che "si sente senza vedere la causa originaria del suono", o che "fa sentire dei suoni senza la visione delle loro cause". La radio, il disco o il telefono, che trasmettono i suoni senza mostrare il loro emittente, sono per definizione media acusmatici.
[3] R. Capra, I flauti del cielo, Mimesis, Roma, 2021, p. 54.
[4] Byung-Chul Han, L'espulsione dell’Altro. Società, percezione e comunicazione oggi, cap. Alienazione, Nottetempo, Milano, 2017, edizione digitale.
[5] L. Malavasi, Postmoderno e cinema, Carocci, Roma, 2017, pp. 109-10.
[6] Cfr. S. Sontag, Styles of Radical Will, cap. The Aesthetics of Silence, Penguin Books Ltd., 2009, edizione digitale.
cast:
Hidetoshi Nishijima, Satoko Abe, Perry Dizon, Masaki Okada, Sonia Yuan, Jin Dae-young, Park Yoo-rim, Reika Kirishima, Tōko Miura, Ann Fite
regia:
Ryūsuke Hamaguchi
titolo originale:
Doraibu mai kā
distribuzione:
Tucker Film
durata:
179'
produzione:
C&I Entertainment, Culture Entertainment, Bitters End
sceneggiatura:
Ryūsuke Hamaguch, Takamasa Oe
fotografia:
Hidetoshi Shinomiya
scenografie:
Kensaki Jo
montaggio:
Azusa Yamazaki
costumi:
Haruki Koketsu
musiche:
Eiko Ishibashi