A Cannes 72, nella sezione Un certain Regard, venne presentato il film della regista franco-algerina Mounia Meddour "Non conosci Papicha", ambientato in Algeria durante i difficili anni 90 e incentrato su una giovane che, animata dal sogno di diventare stilista, profittava delle ore serali per far conoscere le collezioni da lei stessa ideate. La protagonista era interpretata da Lyna Khoudri, cui la Meddour ha affidato il ruolo principale anche in "Houria". Nel secondo lungometraggio, il salto cronologico in avanti (siamo negli anni 2000) non muta il focus degli interessi della regista: il ritratto della condizione femminile in Algeria, questa volta attraverso la vita di un’aspirante ballerina decisa a far valere i propri diritti in un clima in cui vigono ancora patriarcato e oscurantismo. Come la creatività della moda è estrinsecazione del bisogno di libertà, così la pulsione verso la danza è il contrassegno fisico, corporeo, cinetico della medesima aspirazione.
Anzi si può affermare che nel secondo lungometraggio l’anelito libertario è perfino più convinto, sia dal punto di vista esplicito che da quello implicito. Già il significante scelto per il titolo, che coincide poi col nome della protagonista, è una dichiarazione di intenti: in Arabo houria equivale infatti a “libertà”. Ma non basta, perché Mounia Meddour infarcisce la sua opera anche di stilemi espressivi più sottili e metaforici che le garantiscono solidità, coerenza narrativa e un’indubbia originalità. La scelta delle location è uno di questi. Le reiterate inquadrature che ritraggono la protagonista mentre si esercita su un’ampia terrazza rivolta verso il panorama marino, come anche lo sguardo verso il canarino chiuso in gabbia, sono esemplari ancorchè non verbalizzate espressioni del bisogno di libertà. Dal momento in cui la protagonista subisce un’aggressione e incappa in una sorta di mutismo post-traumatico, è la sua gestualità e il desiderio di riacquisire la piena efficienza fisica a costituire un nuovo codice comunicativo ed espressivo. Non a caso, come avviene in "Persona" (1960) di Ingmar Bergman, dove il mutismo della protagonista riduce al minimo il dialogo e l’uso dell’espressione verbale, nel film della regista algerina l’immagine è tutto, mentre la comunicazione verbalizzata subisce un drastico ridimensionamento. Anche la vicinanza della macchina da presa ai corpi femminili, mai voyeuristica, bensì pudica ed empatica è coerente con questo scopo. Durante le terapie presso una struttura riabilitativa, Houria entra in contatto con altre donne, molte delle quali vittime di violenze o deprivazioni affettive scaturite dal medesimo clima di intolleranza che la regista intendeva denunciare già nel primo lungometraggio. Intelligentemente, la sceneggiatura non si disperde nei rivoli delle vicende biografiche di queste donne, nei confronti delle quali Houria, da sconosciuta, diventa pian piano amica e soprattutto esempio da imitare. Il recupero fisico e atletico è così metafora dell’acquisizione della piena libertà individuale e la coralità di tale aspirazione viene espressa ancora una volta con un’acuta scelta nelle inquadrature e nella scenografia: gli attrezzi presenti nella struttura riabilitativa sono simili a quelli della palestra nella quale la protagonista si esercita. In altri termini, "Houria" ci dice che l’aspirazione alla libertà è sentita e condivisa dalle donne algerine a prescindere dal fatto che pratichino o meno la danza.
Il quadro sulla difficile realtà algerina contempla anche il problema delle harragas, termine spagnolo derivato dall’arabo con il quale si designano le migranti che tentano di raggiungere le coste iberiche; Sonia, la fidata amica e collega di Houria, è una di queste. Sempre sul piano del testo filmico si può dire che la regista si trova a suo agio anche nel ricorso all’analogia, come quando vuole ottenere una chiave di lettura ironica per allentare la tensione narrativa: dopo una sequenza notturna nella quale scommette in un combattimento clandestino tra arieti, vediamo Houria andare a casa e assistere a un duello elettorale tra Barack Obama e Donald Trump.
All’insegna dell’originalità anche le scelte in fatto di musica: essendo il film disseminato di scene dedicate alla danza, non vi è una colonna sonora univoca bensì brani rispondenti alle diverse occasioni; ben tre di essi provengono dalla tradizione musicale italiana: si va dal "Nessun dorma" a "Gloria" e "Felicità". Houria è una pellicola fondamentalmente improntata all’ottimismo.
cast:
Nadia Kaci, Rachida Brakni, Lyna Khoudri
regia:
Mounia Meddour
titolo originale:
Houria
distribuzione:
Wild Bunch International
durata:
104'
produzione:
High Sea Production, The Ink Connection
sceneggiatura:
Mounia Meddour
fotografia:
Léo Lefèvre
scenografie:
Damien Clement
montaggio:
Damien Keyeux
costumi:
Emmanuelle Youchnovski
musiche:
Maxence Dussère, Yasmine Meddour