Todd Solondz e il cinema indipendente statunitense
Il termine "indipendente", legato all'arte cinematografica, ha avuto diverse connotazioni nel corso della storia del cinema. Tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta, ad esempio, esso includeva "sia le innovazoni della Nouvelle Vague, sia i film a basso costo [...] realizzati da Roger Corman per la compagnia indipendente American International Pictures (AIP)". Il cambiamento decisivo subentra nel momento in cui nasce "l'idea di un cinema d'autore che aveva come caratteristiche principali la descrizione dello smarrimento e della perdita di coscienza che la società dell'epoca stava attraversando, e la riflessione sul cinema in quanto mezzo impotente a garantire e definire una qualsiasi certezza"
[1].
È in questo filone di pellicole che si inserisce anche l'opera di Todd Solondz, tra i registi più importanti e influenti del panorama cinematografico indipendente a stelle e strisce, autore di un cinema provocatorio, politicamente scorretto, cinico e crudele, in grado di sfidare le aspettative e i tabù dello spettatore. Nato nel New Jersey nel 1959, esordisce nel lungometraggio - dopo quattro corti - con "Fear, Anxiety and Depression" nel 1989, opera di cui non possiede il
final cut e che si rivela un'esperienza terribile per il regista, tanto che preferirà sempre ometterlo dalla sua filmografia. Con il successivo "Fuga dalla scuola media", presentato al Sundance Film Festival, il cinema di Solondz giunge a una piena e compiuta maturazione gettando le basi per "Happiness", capolavoro del 1998 e pietra miliare del cinema
indie americano.
L'altra faccia dell'America
"Happiness" è un racconto corale con al centro le vicissitudini della famiglia Jordan. Joy è una trentenne fallita: debole, poco determinata, incapace di trovare un uomo che la sostenga, sogna di fare la cantante ma lavora in un call center. Trish, sua sorella, è invece sposata, apparentemente realizzata, con due figli e un'ottima abitazione. L'ultima sorella, Helen, è infine una vanesia scrittrice di successo, bellissima e desideratissima. Questa semplice situazione di partenza viene però enormemente complicata da una fitta rete di relazioni morbose e perverse. Bill, il marito di Trish, si scopre infatti essere un pedofilo reo di aver abusato di un bambino; Allen, uno dei pazienti di Bill, segretamente innamorato di Helen, è ossessionato dal sesso e importuna telefonicamente delle donne raccontandole cose oscene. Nel frattempo, i genitori delle tre sorelle hanno deciso di separarsi dopo quarant'anni di matrimonio, mentre il primogenito di Trish, ormai in età adolescenziale, cerca di eiaculare la prima volta.
È chiaro che il ritratto solondziano di questo microcosmo miri a scoperchiare tutte le perversioni nascoste sotto i verdi prati della provincia americana, come programmaticamente
David Lynch aveva anticipato in "
Velluto blu" con la ripresa del celebre
orecchio mozzato. Esattamente come i sodali Alexander Payne ("Citizen Ruth", "Election") e Harmony Korine ("Gummo", "Julien Donkey-boy"), Solondz offre un ritratto provocatorio e politicamente scorretto su ciò che si agita dietro la facciata perbenista dell'America. E, sotto questa facciata, Solondz riprende tutta una fauna di uomini (da qui il racconto corale) destinati alla rovina, giacché in questo cinema darwiniano i falliti falliscono e i vincenti vincono. La battuta chiave, contenuta in "Welcome to the Dollhouse", avviene tra la protagonista Dawn Wiener e il bullo che la tormenta: alla domanda del perché di tanto rancore nei suoi confronti, la risposta è un lapidario e raggelante "perché sei brutta". I personaggi di Solondz
nascono falliti, cercano in continuazione un cambiamento, si agitano perennemente in cerca di un breve attimo di
felicità, ma sono destinati a rimanere sempre uguali a se stessi. Perché se ogni personaggio solondziano tende a quella condizione impossibile da raggiungere - pure per Helen, che si lamenta narcisisticamente di essere "un'incapace", di non essere stata violentata da piccola e di non avere per questo "il dono dell'autenticità" nel suo lavoro -, ognuno di essi non può comunque sottrarsi dalla sua ricerca. E se alcuni possono nascondere la propria precaria situazione nell'istituzione familiare (i genitori; Bill e Trish) o nel successo (Helen), ecco che, quando quelle strutture si scioglieranno come neve al sole, non si potrà che fare i conti con la propria inettitudine.
La sessualità, la famiglia, la società
È anche chiaro come la felicità vada ricercata attraverso il piacere, che è prima di tutto di natura sessuale: per questo in "Happiness" viene indagato in modo così profondo, ambiguo e perverso il rapporto che diverse persone instaurano con la propria sessualità. E, in particolare, a Solondz interessa proprio la natura perversa della sessualità di certi individui: lo straniamento proviene, però, dallo "sguardo "mostrativo", e non dimostrativo, che aumenta il grado di sconcerto nello spettatore"
[2]. L'"innamoramento" di Bill nel campo da baseball, ad esempio, è accompagnato da una melodia dolce e sognante, come nei più classici "innamoramenti" cinematografici, facendo coincidere lo sguardo dello spettatore con quello del pedofilo. Solondz, sposando così la soggettività del suo personaggio, evita facili condanne e prese di posizione, lasciando al pubblico il compito di giudicare il protagonista.
Il dottor Maplewood, infatti, viene rappresentato come una persona intelligente e gentile. Nel dialogo che instaura con il figlio sul finale, dove è costretto a rivelare la propria perversione, riesce a trovare una delicatezza nelle parole, in contrasto con la loro natura sovversiva, davvero straziante: l'ultima battuta, in risposta alla domanda se sarebbe capace di "penetrare" anche il suo primogenito, possiede una sincerità e una sensibilità disarmanti. Il legame tra Bill e il figlio è per tutto il film segnato dall'ossessione per il sesso: il secondo, infatti, essendo in età pre-adolescenziale, si confida con il padre in cerca di risposte sulla propria sessualità. Il personaggio di Allen, invece, sembra quasi essere la versione adulta (e quindi eternamente fanciulla) proprio del piccolo Billy Maplewood: la sua sessualità si è fermata a uno stadio non pienamente maturo a causa della sua introversione e timidezza. Per questo sfoga la propria rabbia masturbandosi mentre intrattiene anonime conversazioni telefoniche con altre donne. La vicina di casa Kristina, segretamente innamorata di Allen, è disgustata dal sesso ma sublima la pulsione sessuale nel cibo, come dimostra il dialogo nel ristorante dove, al racconto dello stupro subito, non può far altro che continuare a ordinare altre pietanze (che le ricordano tra l'altro proprio quella violenza, come se volesse in un certo senso "riviverla").
L'attenzione nei confronti della sessualità e delle sue perversioni è caratteristica del cinema di Solondz, il quale comunque non mostra mai esplicitamente i rapporti sessuali, né indugia sui nudi maschili o femminili. Solondz riflette su come la sessualità incida sul nostro modo di rapportarci con la realtà e, soprattutto, con gli altri; in altre parole, la utilizza per mettere in discussione le norme su cui si fonda la società occidentale. "Happiness" mostra la condizione di infelicità insita nella borghesia americana e, per far questo, si serve del microcosmo familiare, il cui scopo è proprio quello di riprodurre la società intera: sia la famiglia Jordan che la famiglia Maplewood, infatti, vanno incontro a un inevitabile collasso. L'istituzione familiare mostra tutta la propria caducità, come qualcosa destinato a disintegrarsi nel momento in cui i suoi fondamenti vengono messi in discussione. E non è un caso che questi due nuclei siano destinati a spezzarsi proprio a causa del
pater familias, il quale metterà in subbuglio il fragile equilibrio che regge quelle relazioni.
Il pessimismo solondziano permea ogni oggetto, individuo e situazione presente in "Happiness". E qui il regista statunitense offre la prova più limpida del proprio talento, costruendo una sceneggiatura di programmatico cinismo ma dalla straordinaria ambiguità, complessità e stratificazione. Un meccanismo a orologeria dove si sprecano le battute taglienti, i dialoghi brillanti e le intuizioni più sorprendenti; un gioco al massacro dove ogni storia trova il proprio posto nel mondo creato dal suo autore. Solondz è abilissimo nel maneggiare il dispositivo cinematografico e maestro nell'arte dello straniamento, ottenuto attraverso l'utilizzo di registri o melodie in contrasto con gli argomenti trattati. "Happiness" è un
puzzle in miracoloso equilibrio tra artificiosità e naturalismo; un equilibrio che andrà lentamente sbilanciandosi nei confronti della prima con il proseguire della filmografia.
Un cortocircuito cinematografico
"Happiness" rappresenta il capolavoro di Todd Solondz, la sua opera più rappresentativa e compiuta. È però impossibile evitare di parlare della successiva filmografia dell'autore statunitense, essendo ogni opera legata all'altra in una particolarissima rete di richiami, citazioni e connessioni. Nel cinema di Solondz, infatti, tornano spesso i medesimi personaggi ma interpretati da altri attori; talvolta, questi personaggi, muoiono in un film per poi ritornare in un altro. Quello di Solondz rappresenta un universo a sé stante, autosufficiente, dove non vige il principio fondamentale di identità e non contraddizione, dove ogni cosa può essere se stessa e il suo contrario. Un universo cinematografico in perenne cortocircuito. A partire da "
Storytelling", paradigmaticamente diviso in
fiction e non-fiction, il cinema solondziano ha iniziato a sperimentare con la propria natura cinematografica, con le infinite possibilità della narrazione, mostrando tutta l'artificiosità alla base della creazione artistica. Nel successivo "Palindromes" il personaggio principale, Aviva, viene interpretato nel corso del film da attori diversi per età, carnagione, corporatura e persino sesso (espediente poi ripreso da Todd Haynes in "
I'm not Here"). Della protagonista di "Welcome to the Dollhouse", Dawn Wiener, vediamo i funerali all'inizio dello stesso "Palindromes", ma possiamo ammirarla viva e vegeta (nonché interpretata da Greta Gerwig) in "Wiener-dog". Questi sono solo gli esempi più eclatanti, ma tutta la filmografia di Solondz, passata e futura, concreta e possibile, è innervata di questi cortocircuiti narrativi. Possiamo dire che Solondz abbia creato un proprio
cinematic universe, anticipando le mode contemporanee, che fosse già parodia di tutti quegli universi condivisi che gli succederanno.
È un universo, quello di Solondz, che riflette quel senso di precarietà dettato dagli eventi dell'11 settembre. Ma c'è di più: questa crisi (che è soprattutto una crisi d'identità) riflette anche una pessimistica visione della natura umana. Per Solondz, infatti, come spiega Mark Wiener in "Palindromes", "tutti finiamo come abbiamo iniziato. Nessuno di noi cambia. Crediamo di cambiare ma in realtà siamo sempre uguali". E quindi uno stesso personaggio potrà essere interpretato da attori diametralmente opposti, ma sarà sempre lo stesso, sarà sempre
se stesso. Torneranno situazioni, uomini, ma ogni cosa concluderà il proprio percorso giungendo nuovamente al punto di partenza, in un eterno ritorno dell'uguale, in un'alienabile condizione di in
felicità.
Bisogna quindi soffermarsi con più attenzione sulla
pellicola numero sei del regista: "
Life During Wartime". Essa è l'aggiornamento di "Happiness", venti anni dopo: Solondz ritorna a quei personaggi mostrando i cambiamenti avvenuti in quel mondo narrativo, per evidenziare come i tragici avvenimenti dell'11 settembre abbiano modificato la società statunitense e come il digitale abbia modificato il nostro modo di rapportarci alle immagini. Eppure, come abbiamo detto, ogni cosa cambia ma rimane la stessa: "Life During Wartime" è quindi un
sequel e, allo stesso tempo, un
remake di "Happiness", con ovviamente stessi personaggi ma attori differenti. Ritornano musiche, scene (il dialogo iniziale al ristorante), temi (la pedofilia), ma il mondo attorno ha un'aria differente. I fantasmi dell'11 settembre agitano gli animi dei personaggi, infestano le coscienze. L'iperrealismo del digitale si scontra con l'esibita finzione della narrazione; il grottesco denuncia l'impossibilità a raccontare la realtà, a spiegare una condizione esistenziale; i tempi comici si dilatano, ogni battuta esibisce la propria artificiosità. La fede nel racconto e la perfezione narrativa di "Happiness" vanno, ancora una volta, in cortocircuito. Ora che la pellicola non c'è più rimangono i fantasmi del digitale: dimenticare è impossibile, così come andare oltre ciò che è stato e si è impresso fisicamente (sulla pelle, sulla pellicola). I fantasmi tormentano la memoria personale e cinematografica.
Todd Solondz non ha mai fatto altro che interrogarsi su cosa fosse la realtà e su cosa fosse il cinema. E non ha mai smesso, come tutti i grandi narratori, di interrogare il proprio pubblico, offrirgli nuovi spunti di riflessione, utilizzando l'ambiguità delle immagini, delle parole, delle persone. Al di là di alcune superficiali accuse, che lo volevano provocatore fine a se stesso, Solondz non ha mai fatto altro che smuovere un poco le nostre coscienze. Beffardamente: perché nel finale di "Happiness", quando Joy alza gli occhi in cerca di una certezza che non arriverà mai, di una spiegazione circa la propria natura ridicola e comica, ecco che col suo sguardo sembra rompere la quarta parete, quasi come a chiedere delucidazioni allo spettatore. Il quale però, Joy non lo sa, è nella sua stessa identica situazione: disorientato, spiazzato, impotente. In un cinema di fronte al quale non sa mai se ridere o se piangere, disperarsi o consolarsi.