Non sono pochi i grandi vecchi del cinema europeo che con l’avvento del un nuovo millennio hanno approcciato la nuova epoca con uno spirito arricchito e rinnovato di consapevole levità.
Si parlerebbe banalmente di nuova giovinezza, di resistenza a mode e tecnologie ma vi è, in realtà, una continuazione d’opera che capace di rivelarsi con variazioni lievi ma rigeneratrici.
Tratto dal romanzo "The Chocolate Cobweb" (1948) della statunitense Charlotte Armstrong, "Grazie per la cioccolata" è il primo dei sei lungometraggi che Claude Chabrol ha realizzato nel corso degli anni 2000 ed è forse il migliore, quello dove più armoniosamente si esemplificano molte delle componenti che hanno caratterizzato il suo cinema.
L’umanità che regna il suo film è ancora una volta quella di una borghesia che, sempre distrutta – spesso con le proprie stesse mani – si rigenera: il ceto medio-alto ci riappare con mascherine di stretti denti sorridenti. Fin dalla sequenza che precede i titoli di testa notiamo che la distanza che intercorre tra personaggi uniti da legami parentali non è dissimile da quella che si stabilisce tra perfetti sconosciuti. L’atteggiamento distaccato è talvolta quello sito in relazioni già presupposte, e viceversa. O sarà forse una ulteriore applicazione di un trucco?
Giunge a tale proposito rivelatoria una battuta della Marie-Claire di Isabelle Huppert che, direttrice della società Muller, conclude una assemblea di lavoro dicendo: “bisogna preoccuparsi delle apparenze. Questo è fondamentale”. Il riferimento è agli imballaggi del cioccolato, ma è d’altra parte un gancio inequivocabile offerto allo spettatore per suggerirgli che mai la verità è frutto dell’evidenza e che le risposte risiedono il più delle volte negli angoli delle forzature invisibili, come gli Alfred Hitchcock anche qui adorati ("Il sospetto", "L’ombra del dubbio") insegnano.
L’ambivalenza non è forse quella che si staglia tra i codici del thriller – citazioni dirette: “La nuit du carrefour" di Jean Renoir e "Dietro la porta chiusa" di Fritz Lang, tra gli autori prediletti di Chabrol -, messo egli stesso in allarme in quanto genere cinematografico?
Così risponde dunque la doppia pista della pellicola: la storia di Marie-Claire (detta Mika) piatta sembra evidenziarsi in un oggi ospitato dalla svizzera Losanna, che nelle intenzioni di Chabrol reca nella apparente neutralità il più altro grado di perversione. Ben presto le certezze vengono messe in discussione e un irrisolto episodio del passato riemerge. O sono forse due i casi che sembravano sepolti, che il marito, il pianista André Polonski, credeva superati (o che, magari, voleva a sua volta semplicisticamente superare?). La giovane Jeanne Pollet potrebbe difatti essere sua figlia o, chissà, rappresentare una chiave per il disvelamento dei reconditi segreti di Mika.
Jeanne viene accolta di buon grado in casa Polonski e, scandita dalle esercitazioni al pianoforte, l’ultima parte del film è una sorta di resa dei conti in tale ambiente compressa.
L’evoluzione, le rivelazioni, le rese dei conti non sono però mai concatenati da un meccanismo effettistico intento a frugare nel bagaglio dei trucchi del cinematografo. Stilisticamente il cineasta francese poggia dalla prima all’ultima inquadratura su un’andatura piana come la fotografia di Renato Berta, una partita a scacchi dove la verità e la menzogna risiedono chirurgicamente nella dimensione espressiva dei personaggi, nella gestualità che si ripete o semplicemente viene perpetuata con variazioni minime. Che in alcuni momenti dalla prospettiva di un dato personaggio possono farsi proiezioni tanto, da mettere in discussione la veridicità dell’atto (è stato realmente somministrato il sonnifero in tale circostanza o sono i precedenti che ci impongono a pensare ciò?).
E nella somministrazione della tensione importanti risultano essere le misure che intercorrono tra macchina da presa e corpo del personaggio: si veda in una delle sequenze finali l’espressività che assume la nuca della Huppert quando messa di fronte (o meglio di spalle) ad una colpevolezza è costretta a rispondere del corrente atto in corso e di passate azioni.
La tensione non è dunque una questione sul sapere o meno la verità, quanto piuttosto quella di cristallizzare mediante l’arte della sottigliezza i momenti che compongono il dipanarsi della vicenda. In tal modo non ci si aspetti una risoluzione definitiva: secondo il sornione Claude Chabrol le equivocità e le duplici letture possono azionare il grande gioco ma non arrivare ad una definitiva vittoria del bene sul male (o viceversa).
Nel reggere le carte del castello, Isabelle Huppert è una presenza fuori dall’ordinario e il modo in cui il suo sguardo regge i titoli di coda basterebbe da solo a giustificare il prezzo del biglietto.
D’altra parte lo spirito dell’opera è già tutto nel geniale titolo: la cioccolata, alimento per eccellenza al quale non si può dire di no - goduria immediata per i palati dei più - e di conseguenza dono sempre e comunque ben accetto nel cinema di Claude Chabrol è un ingrediente a base di ombre.
cast:
Isabelle Huppert, Jacques Dutronc, Anna Mouglalis, Rodolphe Pauly, Brigitte Catillon, Michel Robin, Mathieu Simonet
regia:
Claude Chabrol
titolo originale:
Merci pour le chocolat
distribuzione:
Mikado
durata:
101'
produzione:
MK2 Productions Drapeau, Suisse CAB Productions Drapeau, France France 2 Cinéma Drapeau, Suisse TSR
sceneggiatura:
Claude Chabrol, Caroline Eliacheff
fotografia:
Renato Berta
scenografie:
Ivan Niclass
montaggio:
Monique Fardoulis
costumi:
Elisabeth Tavernier
musiche:
Matthieu Chabrol