Un film piatto, monotono, può essere un grande film. Ritmo lento, dilatato; prosciugamento del plot (manca, o quasi, l'elemento narrativo); camera fissa e inquadrature studiate (mai estetizzanti); rari movimenti di macchina. "Time out of Mind" di Oren Moverman, film fortemente voluto da Richard Gere - che oltre ad esserne interprete l'ha prodotto - è un film indipendente coraggiosamente autonomo rispetto agli omologati standard Sundance.
Si può ritenere esteticamente discutibile la scelta di una star-icona del calibro di Richard Gere di interpretare George, un senzatetto newyorkese? Si può, ma solamente qualora l'assenza di una narrazione canonica e di cambi di ritmo faccia venire nostalgia di cinema diretto. O magari di un documentario vero e proprio, anziché di un film di fiction in stile documentaristico. Ma occorre essere attenti, saper guardare. In questo film Moverman non intende affatto collocarsi dalle parti del cinema-verità. Malgrado la scelta di girare con una troupe ridotta all'osso, e di pedinare il protagonista nascondendo la macchina da presa tra la folla (al punto che Gere è stato scambiato veramente per un senzatetto da una signora che gli ha offerto per carità una slice of pizza), la messa in scena è controllatissima, le inquadrature sono come quadri di Edward Hopper. Siamo dalle parti di Raymond Carver, in "Time out of Mind". E' un radicale distillato di minimalismo. Asciutto. Secco. Scritto e diretto per sottrazione. Quasi avendo Bresson come modello. Se solo Moverman avesse avuto il coraggio di estremizzare davvero la sua scelta stilistica avrebbe probabilmente realizzato un capolavoro.
Il film, si diceva, è privo di una narrazione convenzionale. Lo spettatore che attendesse la "svolta", l'accadimento di qualcosa, in male o in bene, è destinato a rimanere deluso. Allo stesso modo il film è privo di accompagnamento musicale. A farla da padrone, la cacofonia della metropoli. Il sound design, accortamente messo a punto come la fotografia di Bobby Bukowski, avvolge George in una nebulosa sonora che sottolinea la sua graduale perdita di orientamento esistenziale in quell'ombelico del mondo che è Manhattan (significativamente, il film inizia con un'inquadratura dello skyline di Manhattan, visto da Queens dove George fin lì viveva. Una volta privo di una dimora, la sua scelta indiscussa è quella di trasferirsi a Manhattan). Lo sguardo è continuamente filtrato: costante la messa in scena attraverso vetri, finestre e vetrate. Le trasparenze permettono di vedere, ma separano inesorabilmente: una scelta stilistica, se non originale, comunque efficace nel restituire il senso di separazione ineluttabile fra George e il mondo. Rende palpabile la frustrazione di chi sente sempre meno tangibile la realtà che lo circonda. Moverman racconta in modo secco e distaccato lo sfilacciarsi del vivere, la lenta presa di coscienza di essere ciò che si rifiuta di ammettere. Un homeless.
Si può certamente restare annoiati, precludendosi in tal modo la possibilità di entrare in contatto emotivo con un personaggio carico di errori commessi nel passato (solo accennati) e di relativi sensi di colpa, che gli impediscono di confidare nel riavvicinamento con la figlia. Un personaggio caratterizzato senza pietismo e senza eccedere nella trasformazione fisica di Gere. La sua controllata interpretazione restituisce il progressivo smacco, la perdita di fiducia nell'esistere. Comprendiamo così la riservatezza del personaggio, la sua incapacità di confidare in sé e perciò in chi potrebbe aiutarlo. La sua incapacità sia di tornare a credere in sé, sia di accettarsi nella condizione di drop out.
Il film non ha squarci di speranza, né precipizi di tragedia. Impeccabile la scelta di Moverman di resistere su di un ritmo ostinato, giocato su di una nota sola, che si ravviva nel finale in quella che è quasi una scena madre: asciutta, ma che sa mettere i brividi alzando la scala cromatica appena di un'ottava. E' persino un finale aperto, e forse era evitabile. Confessiamo infatti che, trovata la composizione ideale per un'inquadratura fissa conclusiva con la persistente separazione di padre e figlia da parte del bancone di un bar (all'interno di quello che pare un piano sequenza e invece è solo un long take), ci sarebbe piaciuto il film si chiudesse lì, alla Tsai Ming Liang. Ecco: se questo film ha un limite, è quello di non andare fino in fondo "oltre le regole" (per citare il titolo italiano dell'opera prima di Moverman).
Forse di rimandi a Carver e Hopper, al cinema, cominciavamo ad averne abbastanza: eppure, dopo aver visto "Time out of Mind", riconosciamo che non avevamo mai visto ancora qualcosa di così squisitamente carveriano e hopperiano.
cast:
Kyra Sedgwick, Michael Kenneth Williams, Steve Buscemi, Jeremy Strong, Jena Malone, Richard Gere
regia:
Oren Moverman
titolo originale:
Time Out of Mind
distribuzione:
Lucky Red
durata:
117'
produzione:
Gere Productions, Blackbird Films
sceneggiatura:
Oren Moverman
fotografia:
Bobby Bukowski
scenografie:
Kelly McGeehee
montaggio:
Alex Hall
costumi:
Catherine George