Dal dramma alla commedia, c'è ancora voglia di ricordare la Bologna che fu. Pupi Avati torna, a pochi mesi di distanza da "Il papà di Giovanna", nella sua amata città natia e, stavolta, prova a usare l'arma della risata per rievocare un lontano tempo felice.
Fin troppo scontata l'immedesimazione con Taddeo, il diciottenne protagonista (il volto nuovo Pierpaolo Zizzi), che sogna di entrare nel gruppo di amici che frequenta il Bar Margherita. Qui, la voce fuori campo del ragazzo (davvero prolissa) occupa tutta la prima ora per descriverci chi sono le personalità così strane che affollano il locale. Si va da Al, leader della combriccola, misterioso e sfuggente, a Manuelo, siciliano e "linfomane". Oltre ai due, c'è tutta una serie di strani personaggi e di storie che si intrecciano (per la verità, in modo piuttosto forzato) e che danno un quadro generale di un 1954 splendente e spensierato.
Appena presentato, il film è stato accolto piuttosto bene dalla critica che continua a considerare Avati una delle certezze del nostro cinema. Si sono sentiti paragoni ingombranti (oltre che inquietanti): riferimenti al felliniano "Amarcord" e al felliniano "I vitelloni". Il problema è che questo bar bolognese di avatiana memoria non ha né la forza del ricordo corale né l'ironia pungente del ritratto dei perdigiorno. Chiaro, c'è molta ambizione nella sceneggiatura. I modelli sono davvero quelli, l'intenzione è di realizzare un'operazione-nostalgia basata sulla risata amara. Si sghignazza per le comiche avventure del gruppo di sodali e, al tempo stesso, si dovrebbe essere avvolti da un senso di malinconia per un "come eravamo e non saremo mai più".
Ma come spesso accade nei suoi ultimi film, il regista emiliano si affeziona troppo ai suoi stessi personaggi e imbastisce un racconto fin troppo confuso e approssimativo. Nessuno dei protagonisti riesce ad emergere, tutti (eccetto il solito bravissimo Diego Abatantuono e il personaggio di Neri Marcoré) rimangono allo stato grezzo di macchiette abbozzate, buone per lo sketch di turno, che magari farà sorridere il pubblico nelle sale del 2009, ma che non contribuirà certo al quadro d'epoca. Di quel 1954, di cosa rappresentava quel bar per gli avventori, alla fine, non percepiamo nulla, se non le turbe adolescenziali di Taddeo. La mancanza più evidente del film sta proprio nell'io narrante. Troppo preso dal mettersi al centro del racconto, il giovane raccontatore (l'alter ego di Avati) si dimentica di ritrarre i vari Al, Manuelo, Gian, Bep, Zanchi, Walter (noto come Water) per com'erano realmente.
Insomma, oltre all'impossibilità di accostare questa pellicola ai capolavori felliniani, risulta ostico anche un eventuale avvicinamento con gli "Amici miei" di Mario Monicelli. Ci sono le zingarate, d'accordo, ma manca la voglia da parte dell'autore (o forse la capacità?) di scavare con lucidità nel profondo. Encomiabile per il suo esplicito ispirarsi a modelli così alti, Avati dimostra di non avere la lucidità per capire che dietro ogni farsa, ogni barzelletta, si nasconde sempre l'aspetto più acido e grottesco della vita.
cast:
Diego Abatantuono, Gianni Cavina, Gianni Ippoliti, Claudio Botosso, Luisa Ranieri, Neri Marcoré, Luigi Lo Cascio, Fabio De Luigi, Laura Chiatti, Pierpaolo Zizzi, Katia Ricciarelli
regia:
Pupi Avati
distribuzione:
01 Distribution
durata:
90'
produzione:
Antonio Avati per Duea Film e Rai Cinema
sceneggiatura:
Pupi Avati
fotografia:
Pasquale Rachini
scenografie:
Giuliano Pannuti
montaggio:
Amedeo Salfa
costumi:
Steno Tonelli
musiche:
Lucio Dalla