All'inizio della guerra, a Bologna, c'è una famiglia un po' complicata. Padre intellettuale fallito (manda lettere a un suo vecchio compagno di scuola diventato artista famoso, mai una risposta), madre bellissima (ma l'aspetto esteriore si sta deteriorando), figlia abbastanza brutta, abbastanza ingenua, forse instabile mentalmente. Il problema principale è il morboso rapporto di protezione che si crea tra il genitore e la ragazza. La relazione affettiva tra i due è accentuata dal fatto che lui insegna nella stessa scuola frequentata dalla giovane Giovanna e l'istinto paterno (diciamolo, molto esasperante) di tenere lontana la povera derelitta dalle grinfie della comunità sprezzante non si ferma neanche sul posto di lavoro.
Succede così che, incautamente, il professor Michele Casali (Silvio Orlando, in una delle sue peggiori interpretazioni) arriva a fare pressione sul nuovo arrivato della scuola (un belloccio forestiero) affinché faccia la corte alla figlia, prospettandogli una possibile promozione. Ma si sa, i sentimenti puerili sono difficilmente controllabili e lo studente non riuscirà a tenere nascosta a Giovanna (Alba Rohrwacher, la nuova scelta di tendenza del cinema nostrano) la sua fugace esperienza sentimentale con la migliore amica di lei. La tragedia, causata dalla terribile delusione, si consumerà proprio nella palestra dell'istituto. La città isolerà il povero docente, sua moglie (Francesca Neri) arriverà a rimuovere l'idea di avere una figlia e la povera Giovanna sarà internata in un manicomio criminale.
Come si vede, la trama del nuovo film di Pupi Avati, "Il papà di Giovanna", è assai interessante, promette degli spunti narrativi assolutamente stimolanti. Purtroppo, è quello che succede solo nella prima ora di film. Dopodiché il naufragio della pellicola è inarrestabile. È come se la penna del regista e sceneggiatore si sia prosciugata. Dopo la reclusione di Giovanna, le vicende diventano di un'implausiblità unica, si fa fatica a spiegarsi il perché avvengano certi episodi. Da una parte, la ragazza che da vittima del troppo amore del padre diventa davvero una pazza scatenata (la follia mentale è forse contagiosa?); dall'altra parte c'è una specie di sussidiario per immagini degli scampoli finali di guerra nel capoluogo emiliano, con il poliziotto fascista Ezio Greggio (promosso al suo primo ruolo drammatico), che si divide fra fedeltà (all'amico in crisi e al Duce) e l'istinto di scappare con la donna che ama da una vita (la moglie del professore). Insomma, anche stavolta Avati conferma i difetti (gravi) dei suoi ultimi lavori post-svolta intimista. I caratteri sono accentuati fino all'inverosimile, con il rischio di trasformarsi in macchiette comiche e la voglia di unire la storia alla Storia continua a far male al copione, visto che anche stavolta l'agognato dramma epocale diventa una specie di raccontino mal spiegato e irrisolto nel finale.
Non è un caso, allora, che i migliori personaggi siano quelli più di contorno, quelli maggiormente frutto di immaginazione e lavoro di scrittura, mentre i protagonisti assoluti, forse per troppo amore come l'autore diceva a Venezia, diventano accentratori di tutti i mali del mondo, insopportabili presenze fisse di un certo sentimentalismo spicciolo che affligge il cinema italiano contemporaneo.
Senza star qui a stupirci per una Coppa Volpi regalata a Orlando, viene più che altro da pensare quali altri fallimenti nefasti dovrà ottenere il grande Pupi prima di convincersi che ci sono cose che si sanno fare meglio e altre peggio e che non c'è nulla di disonorevole a essere ricordati, molto semplicemente, come un mago del cinema di genere. Voto finale per l'incrollabile stima.
13/09/2008