Ultima fatica della rediviva Francesca Archibugi, "Gli sdraiati" pone lo spettatore di fronte a un quesito legittimo e spiazzante, che interroga direttamente l'intenzionalità e la consapevolezza dell'autrice e, di conseguenza, il senso dell'opera(zione) nel suo complesso. In alcuni sprazzi di feroce lucidità, infatti, il film sembra porsi come analisi corrosiva e tagliente di quello che un articolo apparso su Linkiesta ha efficacemente definito "l'insopportabile paraculismo dei padri che incitano i figli alla rivoluzione". D'altro canto, però, i toni da commedia e le derive sentimentali sulle quali la sceneggiatura indugia, fanno della pellicola un prodotto dello stesso fenomeno che pare voler criticare.
Tratto dall'omonimo best seller di Michele Serra, vero caso editoriale del 2013, "Gli sdraiati" mette in scena la crisi personale e umana del giornalista televisivo Giorgio Serla, professionista stimato e di successo, incapace tuttavia di gestire una vita privata altrettanto soddisfacente e, soprattutto, di instaurare un dialogo proficuo e affettuoso col figlio diciassettenne Tito.
Ovviamente Serla, non c'è bisogno di dirlo, è alter ego di Serra stesso, intellettuale blasé e più che organico, con una carriera costruita tra l'Unità, la Repubblica e Mamma Rai, al fianco del sodale Fabio Fazio. Nel suo romanzo, Serra imbastisce una lunga lettera aperta all'indirizzo del figlio adolescente, rappresentante della generazione dei cosiddetti "sdraiati", ragazzini amorfi, viziati, annoiati, impertinenti e atrofizzati nei confronti dei quali l'autore-padre - bontà sua - riconosce una sorta di indifferenza e diffidenza reciproca. La trasposizione di Archibugi, coadiuvata in fase di sceneggiatura da Francesco Piccolo, pure autore di Fazio, rinuncia all'impostazione epistolare e articola una narrazione che, contrariamente all'originale letterario, sembra concedere diritto di replica al figlio. Il film risulta così bipartito tra i suoi due protagonisti maschili: da una parte esplora le inquietudini, le contraddizioni e le idiosincrasie di un uomo maturo che cerca di fare i conti con i nodi scoperti della propria esistenza, dall'altra mette in scena le paure, le pulsioni e i turbamenti di un adolescente che si affaccia alla vita.
Ciò che solleva qualche perplessità, però, è l'ambiguità con cui Archibugi costruisce questa doppia narrazione. Da una parte, infatti, Tito e i suoi amici appaiono oltremodo maleducati, detestabili, immaturi, irriverenti. Dall'altra, al contrario, Giorgio Serla è dipinto come l'incolpevole oggetto delle frustrazioni e delle ostilità del figlio, forse un po' pavido, ma certamente amorevole e comprensivo nonostante le innumerevoli bizze e scorrettezze subite. Nella Milano dei boschi verticali e della gentrificazione, l'intellettuale Serla si muove come spinto da un "senso di colpa immotivato" - virgolettato della regista - mentre poco o nulla viene detto circa la sua totale inabilità all'azione, l'incapacità nel prendere decisioni, l'impossibilità di riconoscere le proprie responsabilità (la petizione a scuola, il discorso sui preservativi, la dubbia paternità...) o la colpevole miopia di fronte ai problemi reali delle persone che gli stanno accanto. Paradigmatico in questo senso, oltre al personaggio dell'ex amante proletaria, è quello della giovane laureata in filosofia ridotta a fare la barista, che però la sceneggiatura riconduce subito a una banale e avvilente parabola romantica, senza nessun tentativo di lettura sociologica.
Quello che appare sempre più evidente e, col procedere della visione, irritante, è dunque il manicheismo con cui viene ridotto a turpe macchietta il mondo dei millennials italiani e, d'altra parte, l'autoindulgenza adottata nel ritratto del protagonista e degli altri esponenti della sua generazione. In questo senso, "Gli sdraiati" incarna perfettamente lo sguardo e il sentimento di quella classe borghese post-sessantottina che, dopo essersi fatta cultura ed establishment, installandosi in posizioni di potere che non accenna ad abbandonare, non rinuncia comunque alla propria (supposta) vocazione di controcultura. Sono i figli del boom, quelli che hanno beneficiato della crescita economica e dell'aumento sconsiderato del debito pubblico, ma che non rinunciano a indignarsi e a scendere in piazza per protestare contro le perversioni di un sistema che loro stessi hanno prodotto e alimentato. Una generazione che, per la prima volta nella storia, secondo una inedita strategia per la sopravvivenza, dopo aver ucciso il padre, ha ucciso anche il figlio, in una sorta di ombelicale mantenimento dello status quo.
Serla diventa così il simbolo principe di una classe e di una generazione che, nelle parole del giovane Tito, "spiega anche quello che non sa", ma che, antropologicamente incapace di riconoscere i propri fallimenti personali e politici, non si stanca mai di salire in pulpito a catechizzare con la "spocchia da reduce". Inconsapevole del fatto che, citando Linkiesta, "un padre che invita il figlio a fare la rivoluzione, inibisce quella più importante: quella contro di lui. E in questo modo, salva il suo posto". E, soprattutto, è incapace di dichiararsi "dinosauro da distruggere", come il professore universitario de "La meglio gioventù". Scrive Minuz su Rivista Studio: "prima di iniziare a congedarsi dalla storia, il sessantotto ci regala un ultimo sussulto (oltre al formidabile spettacolo dei diciottenni, naturalmente educati al ‘pensiero critico', che salvano il Cnel): una strabordante nostalgia per l'autorità, motore di tutta la variopinta letteratura sulla scomparsa del padre e la crisi della paternità, dai libri di Recalcati al ‘Collegio', il reality che ci riporta nella scuola autoritaria così com'era prima della rivoluzione culturale. Dopo la ‘morte di Dio' e la ‘morte dell'arte' elaborate nel mondo di fine Ottocento, ‘la morte del padre' è il grande lascito della generazione dei baby boomer. Salvo che da noi i padri sono ancora tutti lì".
Il tono da commedia in cui si stemperano queste riflessioni, inclusa l'agghiacciante metafora finale che vede Tito imparare a "scalare la montagna", fa del film di Archibugi un piccolo, leggero dramma familiare, derubricabile e insignificante. Eppure, se possiamo legittimamente considerare "Ricordati di me" di Gabriele Muccino un manifesto del clima culturale e politico del ventennio berlusconiano, il valore de "Gli sdraiati" (il libro soprattutto, ma per derivazione anche il film) va riscontrato nel suo farsi vivida fotografia del giovanilismo - anzi, paraculismo - di una generazione apparentemente immortale e inamovibile.
cast:
Claudio Bisio, Gaddo Bacchini, Cochi Ponzoni, Antonia Truppo, Gigio Alberti, Barbara Ronchi, Matteo Oscar Giuggioli
regia:
Francesca Archibugi
distribuzione:
Lucky Red
durata:
103'
produzione:
Indiana Production, Lucky Red, Rai Cinema
sceneggiatura:
Francesca Archibugi, Francesco Piccolo
fotografia:
Kika Ungaro
montaggio:
Esmeralda Calabria