Nel 2000 una coppia di registi, Fenton Bailey e Randy Barbato, realizzò un documentario, "The eyes of Tammy Faye", per gettare luce sul crollo dell’impero finanziario e mediatico nato negli anni 70 e travolto dagli scandali al termine del decennio successivo. Michael Showalter, il regista del riuscito "The Big Sick" (2017), ritorna sul medesimo soggetto realizzando un biopic incentrato sull’omonima protagonista e ricalcando anche nel titolo il lavoro dei suoi predecessori. "Gli occhi di Tammy Faye" è in parte uno spaccato della società statunitense dagli anni 60 in poi, analizzato sul versante di un fenomeno di massa tipicamente americano, ovvero quello dei telepredicatori, ma cinematograficamente è anche un’occasione perduta.
Il film prende le mosse dal primo piano della protagonista, ambientato nel 1994, in cui Tammy Faye è impegnata nel proprio maquillage all’interno di uno studio televisivo californiano di Palm Springs. Le parole di Tammy Faye sono rivolte alla truccatrice che tuttavia, non essendo inquadrata e tacendo, tende a coincidere con lo spettatore, determinando l’illusione che il successivo flashback sia una sorta di anamnesi, di confessione intima e sofferta sulla propria vicenda biografica. Illusione nel senso che il recupero degli avvenimenti del passato nulla aggiunge e nulla toglie al documentario del 2000. Ed è questa, per l'appunto, la ragione per cui il film è un po’ un’occasione perduta: ci si sarebbe potuti aspettare uno scavo psicologico ben più approfondito, soprattutto in un film che dura più di due ore. E invece niente di tutto questo, giacchè della vita della protagonista manca soprattutto il backstage, e il controverso rapporto col prima amico e poi marito Jim Bakker viene solo superficialmente adombrato. Peggio, nei momenti più difficili della relazione di coppia di telepredicatori, quando più spontanee dovrebbero emergere le radici del dissidio, ecco che le parole e la mimica attoriale non si distaccano da quelle esibite negli show televisivi, come se la ricerca della telegenìa, del tocco melodrammatico, del formalismo religioso prevalesse su tutto il resto e i due non avessero, di fatto, una vita privata. Ne risultano momenti che non si può non classificare come kitsch, come ad esempio quando, dopo aver subìto il furto dell’auto, i due pregano in ginocchio nel parcheggio di un motel, o come quando, al termine di un litigio domestico, Jim accetta il perdono di Tammy a patto che lei sia disposta a concederglielo nel corso di una puntata del loro show. L’illusione dello spettatore cinematografico è dunque doppia e, se vogliamo, anche più profonda di quella di chi assisteva alle trasmissioni a scopo presuntamente benefico dei due: quella relativa alla finzione cinematografica in se, ma soprattutto quella della promessa (e non mantenuta) discesa nell’intimo della protagonista. Quella di Abe Sylvia è una sceneggiatura che vira pericolosamente in corso d’opera lasciando la sensazione che qualcosa non torni, che qualcosa manchi. Rinunciando alla voce fuori campo come filigrana interpretativa, Michael Showalter affida tutto alle immagini, anche di repertorio, ma con una regia piatta e piuttosto incolore.
Dove invece il film riesce è nella descrizione della nascita e della straripante diffusione del fenomeno dei telepredicatori. Alla vita di Tammy Faye si intreccia quella del coetaneo Jim Bakker e i due, giovanissimi, partono letteralmente alla ventura unicamente sostenuti dalla fede. Ma c’è anche lo smaliziato Pat Robertson, vero pioniere della telepredicazione, e soprattutto il pasciuto reverendo Jerry Falwell, prima consigliere, poi guru del conservatorismo repubblicano, e infine sheakespeariano Iago traditore. Qualche dettaglio in più su Tammy Faye emerge dal difficile rapporto con la madre, una donna dal rigore morale di stampo puritano, ma fredda e poco comunicativa. È a lei che sono riservate alcune inquadrature dal basso durante l’infanzia di Tammy, collocata così su un piano di subalternità. Showalter sembrerebbe suggerire che la figlia, per quanto sviluppi un carattere decisamente antitetico alla madre, paghi comunque dazio della carenza affettiva in età infantile. D’altronde, l’inestinguibile bisogno di stare davanti alla macchina da presa, che la protagonista confessa nel corso di un’intervista, cos’è se non il tentativo di colmare il vuoto genitoriale e la necessità di essere ascoltati?
Decisamente riusciti l’apparato scenografico e la scelta dei costumi del film: le non rare inquadrature dall’alto sugli interni della famiglia Bakker mostrano il lusso di tappeti, arredi e ville poco meno che principesche. L’occhio dello spettatore, poi, nei campi lunghi cade su un profilmico generalmente ben illuminato, al limite della sovraesposizione, sinonimo di successo e felicità, mentre nei piani più stretti indugia sui gioielli, soprattutto sui collier, e sui visoni, cui Tammy Faye tributa una sorta di feticistica venerazione, tanto da imporre anche alla madre di provarne uno. "Gli occhi di Tammy Faye" è un film che nelle sequenze degli show per i bambini esibisce una palette dai toni pastello, dando ai due protagonisti un aspetto fiabesco, innocente.
cast:
Cherry Jones, Andrew Garfield, Jessica Chastain
regia:
Michael Showalter
titolo originale:
Tammy Faye Bakker
distribuzione:
The Walt Disney Company Italia
durata:
126'
produzione:
Searchlight Pictures, Freckle Films, MWM Studios, Semi-Formal Productions
sceneggiatura:
Abe Sylvia, Fenton Bailey, Randy Barbato
fotografia:
Mike Gioulakis
scenografie:
Laura Fox
montaggio:
Mary Jo Markey, Andrew Weisblum
costumi:
Mitchell Travers
musiche:
Theodore Shapiro