Eran Riklis, regista assurto a una discreta notorietà internazionale con la sua opera precedente (l'interessante "La sposa siriana"), si può annoverare tra le fila dei veri e propri autori. Categoria, questa, senz'altro abusata, ma in questo caso calzante. Non tanto perché Riklis possa vantare uno stile inconfondibile: la regia – declinata secondo tecniche apprese nei suoi studi in Gran Bretagna e pertanto risolta in un linguaggio agevolmente accessibile (anche) a un pubblico europeo - tende a porsi in secondo piano, riservandosi solo qualche orpello nelle sequenze-chiave delle sue opere, per lasciare il campo alla pregnanza delle storie narrate. Il punto è che, pur conoscendo soltanto i suoi ultimi due film, è possibile individuarne alcune tematiche comuni, trattate secondo modalità altrettanto ricorrenti.
Quello del regista è un cinema di confine: l'intricato dedalo delle relazioni tra i popoli in Medioriente (non solo tra Israele e Palestina), coi suoi drammi, le sue contraddizioni, i suoi intoppi, non è mai del tutto dipanato. Inoltre, la violenza è percepita ma mai mostrata (l'unica esplosione ne "Il giardino dei limoni" è meticolosamente fuori campo); la resistenza è condotta dai personaggi con le armi della disobbedienza civile (scelta presumibilmente dettata da un certo idealismo, condiviso da spettatori occidentali e giurie di festival internazionali, ma ampiamente mitigato da finali agrodolci, in bilico tra pessimismo e speranza); il normale trascorrere delle loro vite precluso a causa di ataviche controversie politiche.
Una poetica di partecipe impegno verso una questione irrisolta ("Non ci sono riusciti in tremila anni...", si sente nel film) di cui il volto espressivo e addolorato di Hiam Abbas (sugli schermi in questi giorni anche con "
L'ospite inatteso"), così come la sua condizione di cittadina israeliana di etnia araba, sono interpreti ideali. Non ci sarebbe bisogno di rimarcarne la statura attoriale, se solo fosse già abbastanza celebre: basterebbe osservarla una volta, in una qualsiasi delle sue parti.
La trama del film è rossellinianamente semplice: Salma Zidane, una vedova palestinese di mezza età, vive dei suoi limoni, che coltiva in un giardino appartenente alla sua famiglia, mai coinvolta in azioni terroristiche, da svariate generazioni. Il Ministro della Difesa israeliano si insedia nell' abitazione limitrofa e, per ragioni di sicurezza, ordina lo sradicamento delle piante della vicina, concedendole un risarcimento in denaro. Ella, aiutata da un giovane avvocato immaturo, a tratti egocentrico, ambiguo, con cui avvia anche una relazione sentimentale, intraprende una battaglia legale, fino alla Corte Suprema dello stato ebraico.
La parte per il tutto: ne "La sposa siriana" era un grottesco cavillo burocratico a simboleggiare con risvolti kafkiani il groviglio istituzionale vigente in Terra Santa; qui è un iter giudiziario, più sineddoche che metafora (a differenza di un limone scagliato dalla donna a mo' di sasso della Prima Intifada) della lotta per la dignità e l'autodeterminazione di un intero popolo.
Anche se, a dire il vero, è soprattutto la reminiscenza degli affetti familiari ad alimentare la determinazione della donna, la quale si dimostra indifferente se non infastidita dalla strumentalizzazione della sua epopea (che raggiunge latitudini imprevedibili), dalla condotta ondivaga del suo legale (incapace di esserne davvero sentimentalmente coinvolto), dall'insensibilità di un suo figlio emigrato negli Stati Uniti (il disinteresse delle nuove generazioni è comune anche alla controparte israeliana), dalla maldicenza di altri palestinesi (riguardo il suo rapporto con l'avvocato).
Non tutto, però, ne "Il giardino di limoni" è perfettamente a fuoco. Se il film, che non sfocia in dramma giudiziario ma predilige un registro introspettivo, fatica a mantenere la tensione drammatica, è dovuto soprattutto alla volontà di affiancare alla vicenda principale uno sguardo, ampio ma non adeguatamente profondo, sulla vita privata della famiglia del ministro. Questi è tanto, troppo odioso per figurare in un film che altrimenti sviluppa la sua storia senza schematismi, con la pazienza e la forza delle proprie ragioni, come debole appare il messaggio pseudo-femminista per cui la di lui moglie è l'unica a comprendere le ragioni di Salma e a solidarizzare con lei (è ipotizzabile che il Ministero dell'Educazione e dello Sport, in veste di co-produttore, abbia più o meno imposto un personaggio positivo anche tra le fila degli israeliani), a seguito di una presa di coscienza i cui fondamenti (al di là di una favorevole predisposizione iniziale) sono noti allo spettatore solo in pillole, impedendogli di esserne psicologicamente catturato.