In una stanza modesta e disadorna niente si muove.
La cinepresa la tiene d’occhio in campo lungo e, con la macchinosità che le è propria, si sposta impercettibile indietro mentre lo zoom va avanti, impercettibile pure lui.
Tanta circospezione è giustificata da nuvolette di fumo irregolari che denunciano la presenza di un personaggio il cui respiro è invece regolare, invisibile e pericoloso.
Ci farà compagnia per quasi due ore e la cosa, in sé, è già inquietante.
Non esiste solitudine più profonda del samurai
Se non quella della tigre nella giungla
La frase è apocrifa, attribuita al Bushidō anche nel doppiaggio giapponese che la presero per buona e invece è una interpolazione dello stesso Melville mentre, sempre in tema di "curiosità" delle distribuzioni, in Italia, che il film lo co-produsse, si optò per una lettura creativa del titolo che da "Le Samouraï" divenne un incredibile "Frank Costello faccia d’angelo" attirandosi le ire di Melville che li apostrofò con un Farabutti che è la sintesi della disistima del regista francese per il nostro Paese, basta solo ricordare i suoi difficili rapporti con Volontè sul tournage de "Le Cercle Rouge" (1970) e la pessima fine che fa fare a Riccordo Cucciolla ne "Un Flic".
Jef (o Frank, comunque Alain Delon) è un lupo solitario utilizzato dalla pegre parigina per lavori di fino e senza intoppi.
Metodico al limite della mistica (o della schizofrenia, ci torneremo) vive da solo con un uccellino la cui sopravvivenza è garantita da piccoli gesti rituali, un goccio d’acqua, due semini e tanta tranquillità.
Jef di suo non aprirebbe bocca neanche a torturarlo e i primi dieci minuti del film scorrono come un bel film muto e in b/n dei tempi d’oro. Le cose del mondo però sono complesse e, nella costruzione dell’alibi, Jef deve rapportarsi col mondo, un mondo che parla ed è pure a colori.
"Io non perdo mai" precisa Jef ai compagnoni del poker notturno, quelli che gli reggeranno la seconda parte dell’alibi.
"Io non penso mai" ammonisce l’ispettore (François Périer) che con quel monito fa scattare la caccia all’uomo risolutiva.
Il finale si può anche immaginare benché l’ultimo fotogramma lasciasse un che di irrisolto e fu cambiato in corsa da Melville in fase di montaggio (l’originale, in figura 3). Girato nel pieno delle sue forze,
"Le Samouraï" non è il film che meglio sintetizza la personalità polimorfa di Melville ("L’armée des Ombres", 1969, è di certo più paradigmatico) ma è sicuramente quello che meglio riesce a integrare il suo complesso mondo in un film d’azione che gli garantì botteghino e possibilità di andare dritto per la sua strada, al riparo della tignosa industria cinematografica francese, nei suoi tranquilli studios di Rue Jenner (che andarono a fuoco e l’uccellino del film insieme a loro).
Alain Delon che era già un divo sposato al tempo con Nathalie (che nel film è Jane Lagrange, l’amichetta) si fece molto desiderare nonostante una certa affinità per così dire politica (erano entrambi mec de droit) e che accettò al volo il ruolo del samurai senza padrone nonostante la regia di Melville non potesse garantirgli quel numero congruo di primi piani richiesti da ogni star in ogni contratto che si degnano di firmare.
Il cinema di Melville è fatto di campi lunghi, piani d’insieme e carrellate d’accompagnamento come dimostrano almeno due sequenze da manuale.
Nella prima, il confronto all’americana che si chiude con un ultimo tentativo di riconoscimento, mescolando facce, cappelli e impermeabili, la cinepresa si muove negli angusti spazi di stanze e stanzette per accompagnare la frenetica strategia dell’ispettore deciso a incastrare Jef. Il poliziotto si alza, si siede, cammina, corre, impreca e scorta i testimoni da un loculo all’altro sempre seguito dalla cinepresa che si arrende solo davanti le porte chiuse che, con una tecnica pari a quella di Lubitsch, bypassa con lo stacco di montaggio e oltrepassa in una nuova stanza, ancora più affollata, ancora più ingombra di cose e di persone che seguono sempre più confuse il copione di un poliziotto sempre più esausto.
La seconda fa propri i vantaggi di una ripresa in campo esterno, più fluida e aiutata dai dolly a cielo aperto, nella quale Jef, dopo aver gabbato gli sbirri che lo pedinavano, si reca all’appuntamento col mediatore. La cinepresa, dopo un lungo travelling, stacca con quello che è probabilmente il primo controcampo del film, allargato e di spalle cui segue, per la prima volta, il primo piano di Jef, pur se allargato. Poi ne vengono degli altri, più pittorici (o, come direbbe, Deleuze, affettivi) in quella sorta di storia d’amore che Jef intrattiene con la pianista jazz Valérie (Cathy Rosier).
È decisamente un cinema complesso quello di Melville e come tutti i geni è stato un uomo poco accomodante, capace di amori incondizionati e di odi profondi di cui quelli per Godard e tutta la Nouvelle Vague sono solo degli esempi. Nella definizione della sua personalità intercorrono molti fattori, la maggior parte dei quali viziati dal suo stesso giocare con le parole e i ricordi.
"Le Samouraï" è da lui ricordato come un buon romanzino senza gloria che lui prese in mano integrando la psicologia del personaggio con degli studi sulla schizofrenia.
La naturale afasia di Jef, la sua completa anaffettività, il rituale del Borsalino sistemato sulla testa come fosse un oggetto a incastro (e che infatti lo salverà più dell’alibi costruito), la cura dell’uccellino (che gli salverà la pelle in almeno due occasioni) sembrerebbero, a detta di Melville, il comportamento di un lucido malato di mente.
Questo lo pone in diretta antitesi con il Robert Bresson cui è spesso accomunato, i cui personaggi sono mossi prima che dall’azione da compiere da una Grazia da raggiungere.
Leggendo le sue interviste, si ha l’impressione che Melville non avesse compreso del tutto la poetica del suo collega, cui rimproverava una banda sonora totalmente sconclusionata. Questo un po’ lo squalifica e segretamente fa sperare a chi scrive che Melville si sia poco occupato di Dio mentre Dio si è un po’ occupato di Melville.
È qualcosa di ben visibile in alcune piccole cose, gesti, sguardi che sono costanti in tutti i suoi film, questo compreso. L’estrema cura con cui Jef manovra il mazzo di chiavi, una sequenza di gesti lentissimi e precisi come quelli de "Un condannato a morte è fuggito" o "Pickpocket" (1959).
I suoi movimenti in quella camera dove vive che ha tutte le caratteristiche di un sepolcro (vedi anche il film di Marcel Carnè, "Alba tragica"); la gabbia al centro della camera, enorme e tabernacolare… tante cose piccole e meno piccole che mettono Melville dalla parte di quei registi il cui lavoro-pazienza è una preghiera, un rito, si chiamassero essi Bresson o Ozu.
Senza dimenticare che l’Eterno Errare di Jef in una Parigi che lo teme, lo ama e lo odia è un qualcosa di più di un bell’esempio di Mc Guffin, dato che del fatto in sé non ci viene detta una sola parola.
Oltre queste considerazioni, la pietra angolare, è quasi evidente mettere in rilievo aspetti più umani troppo umani di una natura duale che già nacque Grumbach e poi si volle Melville: le atmosfere newyorkesi nella notturna Parigi; lo scontro dai confini sfumati polizia-mala (Delon fu tranquillamente poliziotto nell’ultimo film di Melville, "Un Flic", 1972) e che lui mise in scherzosa evidenza in una sequenza nella quale una macchina della Polizia prende tranquilla un senso vietato.
Duale ma incerta, quindi, e poco rispondente alle categorie del giusto/sbagliato – vero/falso – buono/cattivo che quell’ultimo fotogramma, quello di Jef che ride, avrebbe reso ancor più evidente.
cast:
Jean-Pierre Posier, Michel Boisrond, Cathy Rosier, Maria Maneva, Nathalie Delon, François Périer, Alain Delon
regia:
Jean-Pierre Melville
titolo originale:
Le Samouraï
distribuzione:
S.N. Prodis
durata:
105'
produzione:
Compagnie Industrielle et Commerciale Cinématographique (CICC)
sceneggiatura:
Joan McLeod (romanzo) - Jean-Pierre Melville - Georges Pellegrin (adattamento)
fotografia:
Henri Decaë
scenografie:
François de Lamothe
montaggio:
Monique Bonnot - Yolande Maurette
musiche:
François de Roubaix