"Tu non puoi comprendere la mia cultura"
"No, no che non posso"
Con questo rapido scambio di battute tra l'americano Brennan e il giapponese Nakamura Gus Van Sant manda al diavolo decenni di riflessioni sul rapporto tra mondi culturali radicalmente differenti e di pellicole e poetiche autoriali aventi (anche) al centro la dialettica tra Occidente e il paese del Sol Levante (
Akira Kurosawa, per citare uno qualsiasi) e le rispettive culture (oltre ad avvisare inconsciamente lo spettatore dei limiti della sua opera). Ed è in effetti in questo preciso punto che il film inizia a prendere una piega che fa subito storcere il naso e che ha portato il sottoscritto ad ammettere che il sedicesimo film del regista statunitense si tratta senza ombra di dubbio del peggio riuscito in 30 anni di carriera.
Si eviti però, come pur han fatto molti, di definire "Sea of Trees" un flop inaspettato o addirittura un "suicidio autoriale": è un'opera estremamente coerente col cinema di Van Sant (soprattutto con quello degli ultimi anni) e non così incomprensibile nel suo fallimento all'interno della produzione di un regista che è già incorso in passato in considerevoli "scivoloni". Si può addirittura azzardare che questo film sia una sorta di punto d'arrivo del percorso del cineasta di Louisville, sempre (pericolosamente) in bilico tra aspri esercizi autoriali ed opere "hollywoodiane" nel senso più prevedibile del termine. Di certo un equilibrio che si è fatto insostenibile con gli ultimi film e le cui contraddizioni sono esplose in questa pellicola palesemente su commissione. Alle critiche Gus Van Sant ha risposto difendendo la viruperata sceneggiatura di Chris Sparling, in cui difatti si riconoscono ben definiti temi cari al regista come il senso di abbandono dell'individuo e l'elaborazione del lutto. Il problema di essa non sta tanto nelle tematiche quanto nella struttura narrativa scontata, nella macchinosità (addirittura esibita) di alcune svolte fondamentali e nelle banalità che la popolano, finendo per divenire ciò che si ricorda maggiormente di essa.
Ma a completare il disastro ci pensa la regia di Van Sant, la quale non solo non riesce a tirare fuori il meglio dai pochi attori ma finisce per enfatizzare le debolezze della sceneggiatura optando per un abuso della colonna sonora, per l'estro melodrammatico che genera ogni attimo presunte scene madri e per un ricorso stucchevole ai propri stilemi più riconoscibili (quanti cieli azzurri, fronde scosse dal vento e primissimi piani reiterati può sopportare lo spettatore/critico ?). Non tutto è perduto in mezzo a questo marasma di prevedibilità: certe scene, come il racconto dei piccoli gesti reciproci che mantenevano vivo nonostante tutto il rapporto fra marito e moglie, dimostrano il ben noto talento del regista nel descrivere la quotidianità e i suoi protagonisti con grande efficacia. In definitiva il vero problema de "La foresta dei sogni" (titolo italiano meno discutibile di quanto sembri) è l'abbandonare la contingenza (da onesto
survival movie)
e volersi elevare ad allegoria della condizione sofferente dell'essere umano, non dimenticando di voler affrontare tematiche come il confronto fra diverse culture e la critica alla contemporaneità materialistica, preso com'è dalla foga di universalità.
Ed è a questo punto che la pellicola di Gus Van Sant naufraga completamente. Per chi scrive colui che si pone così alte vette speculative per mezzo del cinema dovrebbe sempre avere, oltre a notevole cultura, sensibilità ed una
weltanschauung articolata, la capacità di rendere tramite uno stile adeguatamente
sviluppato la sua suddetta visione. Il regista invece adotta scelte stilistiche a tratti ben poco coerenti col resto della propria opera e così standardizzate da appiattire anche a livello percettivo tutti i punti d'interesse del film. Emblematica è pertanto la costruzione delle sequenze finali, che non si limita ad essere prevedibile ed estenuante per la proliferazione di sottofinali ma che adotta pure facili simbolismi (il ritorno alla foresta costruito in maniera speculare rispetto all'inizio, le scelte della fotografia di Tuxen radicalmente opposte all'
incipit, etc...), purtroppo perfettamente in linea con le banalità che vi vengono esposte. Se infatti il confronto fra diversi modelli di civiltà (che diventa più che altro una contrapposizione tra l'alienante cultura materialistica e la saggezza animista del personaggio di Watanabe, come se questa fosse poi la vera identità del Giappone contemporaneo) viene gestito in maniera discutibile e a dir poco didascalica per tutta la durata è nelle sequenza finali, che così poco "orientalmente" spiegano e fanno combaciare in maniera posticcia ogni elemento dell'odissea di Arthur Brennan, che Van Sant (per citare una battuta che a quanto pare va molto di moda presso la critica) "perde se stesso", optando per un "misticismo" che è un'offesa alla vera mistica (orientale e non solo) definire tale. Io parlerei più che altro di "idiozie
New Age" (termine quanto mai datato, c'è da dire). Con tanto di dettagli floreali trash, musiche enfatiche e
dolly che sale all'indietro.