Sì, in quel 1975 alla risata cinematografica era ancora preclusa la facoltà di fustigare i costumi nazionali. Serviva qualcuno che sapesse trasformare lo sghignazzo in scudiscio, in satira feroce. Qualcuno come
Fantozzi.
Prima, però, bisognava ritrovarlo. Da diciotto giorni, infatti, il ragioniere si trovava murato nei gabinetti della megaditta Ital-Petrol-Ceme-Termo-Tessil-Farmo-Metal-Chimica. Finché una "rispettosa" telefonata della moglie Pina non ha fatto scattare le operazioni di recupero dell'impiegato matricola 7820/8 bis dell'Ufficio Sinistri. È così che ci appare per la prima volta il Fantozzi cinematografico: imbiancato dai calcinacci e salutato da una fragorosa martellata in fronte, ma scampato miracolosamente a quella tumulazione mostruosa (per usare uno degli aggettivi a lui più cari). Tutto ciò nelle sale, perché il personaggio letterario era già attivo da qualche anno: dal 1968, quando il genio Paolo Villaggio aveva iniziato a pubblicare sull'Europeo i racconti ispirati alle gag che lui stesso interpretava in tv nel programma "Quelli della Domenica", e dal 1971, quando i monologhi di Fantocci - come l'autore lo chiamava all'epoca - furono raccolti da Rizzoli in un libro che in pochi mesi vendette un milione di copie, primo di una serie di fortunati bestseller.
Ma se in tv l'avvento di quel disturbante comico - già nei panni del sadico Professor Kranz e del servilissimo Giandomenico Fracchia, antesignano di Fantozzi - aveva solo strappato qualche caustica risata alla platea del canale unico, nei cinema sarà vera rivoluzione. Davanti a quel travet in mutande ascellari e baschetto d'ordinanza, l'Italia si ritrovava improvvisamente nuda, con tutte le sue miserie e meschinità. Uno spaccato di desolazione aziendale che Villaggio aveva mutuato dalla sua esperienza all'Italsider. In quei corridoi infiniti sono nati idealmente personaggi leggendari, come il solerte ragionier Filini, instancabile organizzatore di manifestazioni ricreative, il cialtronissimo geometra Calboni, prototipo dell'italiano furbo, ruffiano e sciupafemmine, l'agognata (e sguaiatissima) signorina Silvani (già "Miss IV Piano"), più una pletora di crudeli megadirettori che negli anni si sarebbero alternati nelle vessazioni inferte allo sventurato Fantozzi.
Ma lo stesso Villaggio, che pure incarnava fisicamente quella maschera di gommosa goffaggine, era restio a gestire in proprio il personaggio. Avrebbe voluto affidarlo ad attori consumati come Renato Pozzetto e Ugo Tognazzi, che però declinarono l'invito. Così toccò a lui - e alla sua impareggiabile voce narrante - sobbarcarsi quella mole smisurata di guai, con la complicità dello sguardo grottesco di Luciano Salce, già regista di graffianti commedie di costume come "Il federale" (1961), "La voglia matta" (1962), "Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue" (1969) e "L'anatra all'arancia" (1975).
Fin dalle prime sequenze, come quella dell'autobus gremito che Fantozzi è costretto a prendere "al volo" sulla tangenziale alle 8.01 dopo una fulminea sequela di preparativi, si può cogliere come la lente deformante di Salce acuisca il senso di alienazione che pervade l'intera saga. Un approccio feroce e surreale, in perfetta simbiosi con i romanzi di Villaggio e che andrà via via disperso nei successivi capitoli, affidati alla mano esperta ma decisamente meno ispirata di Neri Parenti.
Nessuno, in Italia, aveva mai fatto ridere così, con quel miscuglio di comicità
slapstick, grafica (la lingua felpata, le mani spugnate, i rutti a effetto-valanga) e fisica-parodistica. "Fantozzi" è una miniera di situazioni esilaranti: dalla partita di calcio scapoli-ammogliati sotto l'acquazzone, con tanto di apparizioni mistiche sulla traversa, alla cena romantica al ristorante giapponese, funestata dall'inopinato sacrificio del pechinese Pier Ugo; dal capodanno anticipato ad arte dall'infame maestro Canello all'infausta gita al lago con Filini.
A scatenare l'effetto comico è anche il linguaggio della narrazione, frutto della stessa penna raffinata che insieme a
Fabrizio De André aveva partorito la ballata "Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers". Grazie a "Fantozzi" aggettivi come "pazzesco", "orrendo", "tragico", "pauroso" iniziano a uscire dai loro ordinari confini semantici, prendono piede i neologismi e le frasi idiomatiche: "megadirettore galattico", "salivazione azzerata", "sedie in pelle umana". Una rivoluzione lessicale che sarà riconosciuta a Villaggio anche da uno dei suoi più autorevoli estimatori,
Federico Fellini, che lo vorrà con sé in quello che resterà il suo ultimo film, "La voce della Luna" (1990).
Ma soprattutto nessun film comico era mai stato così feroce. Con punte di crudeltà assoluta, come nella scena in cui la piccola Mariangela viene scambiata per la scimmietta del circo durante la consegna dei doni di Natale ai figli dei dipendenti. Eppure, dopo quell'umiliazione protratta dolorosamente allo spasimo, Villaggio avverte l'obbligo di fermare la macchina delle risate, di lasciare spazio alla misericordia. Con quella che è forse la scena più struggente dell'intera saga: a Mariangela che chiede perché l'abbiano chiamata Cheeta (la scimmia di Tarzan), Fantozzi replica ricordando che è esistita una diva bellissima di nome Cheeta Hayworth. Non sarà l'unico caso in cui Villaggio segnerà un limite oltre il quale la risata si strozzerà in gola e il sarcasmo si affievolirà in rassegnata tenerezza.
Del resto, il contrasto tra opposti registri è un'altra delle peculiarità della maschera-Fantozzi, non a caso apprezzatissima in paesi come la Francia, che sulle peripezie dei travet ha costruito una mitologia intera, e della Russia (all'epoca Urss), memore della lezione di Gogol' e Cechov (Villaggio vincerà addirittura il Premio Gogol in Unione Sovietica nella sezione "migliore opera umoristica"). E non si osa troppo neanche accostando i minacciosi palazzoni della Megaditta ai labirinti della burocrazia kafkiana (ebbene sì, c'è anche chi ne ha scritto un libro: Emilio Cagnoni - "Fantozzi Kafka", L'Epos, 2007) o raffrontando le sembianze paffute del ragioniere con alcune maschere
chapliniane. Di queste ultime incarna la natura tragicomica, ma anche il messaggio di ribellione, celato dietro le sembianze bonarie da Puccettone - come è solito appellarlo l'odioso Calboni, accompagnando l'epiteto con immancabile pizzicotto sulla guancia. Pur privo di una "coscienza politica" e abituato a riversare principalmente in famiglia le sue frustrazioni, Fantozzi è infatti capace di inaspettati e titanici scatti d'orgoglio. Come quando, nell'umiliante partita a biliardo con il feroce Catellani, "al 38° coglionazzo e a 49 a 2 di punteggio", inanella tre colpi da ko ("rinterzo ad effetto con birillo centrale", "calcio a 5 sponde" e "triplo filotto reale ritornato con pallino"), vedendosi poi costretto a sequestrare la madre dell'imbufalito Cavaliere Conte. Oppure quando, suggestionato dall'ideologia comunista del sovversivo ragionier Folagra, frantuma con un sampietrino la vetrata aziendale, subendo una tragica convocazione ai piani alti e la condanna a entrare nell'acquario degli impiegati, nel ruolo della triglia. Pur sempre meglio del peggiore degli incubi: crocefisso in sala mensa!
La parabola finale del film sublima genialmente decenni di lotta di classe: "Caro Fantozzi - spiega il megadirettore galattico - è solo questione di intendersi, di terminologia, lei dice ‘padroni' e io ‘datori di lavoro', lei dice ‘sfruttatori' e io dico ‘benestanti', lei dice ‘morti di fame' e io ‘classe meno abbiente'. Ma per il resto, la penso esattamente come lei". Replica attonita del ragioniere: "Ma... mi scusi... Sire, ma... non mi vorrà dire che lei... scusi il termine, sia... comunista!?"
(tuoni e fulmini). "Beh... Proprio comunista, no! Vede, io sono un medio-progressista". Ancora stretta attualità, verrebbe da dire.
Eppure Fantozzi è anche un formidabile incassatore. Totalmente inerte di fronte al destino avverso, perfino quello sentimentale ("Ugo, io ti stimo moltissimo" sarà il massimo riconoscimento che otterrà dalla moglie, con la corteggiatissima Silvani finirà anche peggio), riesce sempre a rimanere a galla, un po' come l'Italia stessa, vessata, umiliata, offesa, eppure in qualche modo capace di tirare avanti. Anche nella versione del 1975, quella del dopo-boom, del posto fisso nel senso deteriore del termine, con le sue aziende-ministero avviate al tramonto dell'era industriale. I bersagli della comicità sulfurea di Villaggio sono le caste dei colletti bianchi, ormai già impelagate in un coacervo di nepotismo, arrivismo e corruzione, tra stuoli di Lup. Man., Gran Farabut e Figl. di Gr. Putt., ma anche la nobiltà decaduta (simbolizzata dall'ineffabile contessina Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare) buona al massimo per organizzare cene a Cortina (con tanto di gigantesco pentolone di polenta in cui finirà immerso lo sventurato ragioniere) e una classe media impiegatizia pavida e fannullona, ritratta in istantanee-cult, come quella delle partite a battaglia navale o a ping-pong sulle scrivanie e della gigantesca fuga collettiva a fine orario. Un'Italietta metà ignava, metà ignorante, in cui il dialetto veniva a fatica sostituito da una lingua nazionale, con tanto di scivoloni sui congiuntivi - memorabile, in tal senso, il dialogo durante la proibitiva partita di tennis con Filini "dalle 6 alle 7 antelucane".
All'epoca "Fantozzi" subì qualche critica per via di una certa frammentarietà, venne ritenuto più un collage di gag che un film compiuto. Accuse che, a ben vedere, si potevano riservare per molte delle puntate successive. Nel primo atto, invece, si percepisce, oltre alla mano sicura del regista, la solidità della sceneggiatura - scritta dallo stesso Villaggio insieme a Salce e a due firme doc come Leo Benvenuti e Piero De Bernardi - oltre all'affiatamento di un cast costruito su caratteristi straordinari, come Liù Bosisio, nei panni della prima Pina (poi l'ingrato ruolo sarebbe toccato a Milena Vukotic), Plinio Fernando opportunamente truccato per interpretare la mostruosa Mariangela, l'occhialuto Gigi Reder-Filini, l'esuberante Anna Mazzamauro alias Silvani in Calboni, lo stesso Calboni, reso immortale dal ghigno baffuto di Giuseppe Anatrelli, più la pattuglia di azzimatissimi direttori.
Sarebbe già stato un capolavoro come film comico, incidentalmente ha finito col rivoluzionare quarant'anni di costume nazionale. Non a caso, nel 2008, è stato selezionato da una commissione di esperti tra i 100 film italiani da salvare, unica pellicola comica presente nella lista, assieme alle opere di Steno ("Totò a colori" e "Un americano a Roma"). Per il quarantennale, nel 2015, è stato anche riportato nelle sale in versione restaurata in 2K. Difficile stabilire se l'Italia di oggi sia "più tragica di quella di allora", come sostiene l'ultra-ottuagenario Villaggio. Di sicuro, oggi come allora, della sua dissacrante ironia abbiamo un bisogno mostruoso.