Due anni dopo il 40esimo compleanno della saga cinematografica del ragionier Fantozzi, ci lascia per sempre il suo inventore. Paolo Villaggio ha vissuto con amarezza gli ultimi anni della sua vita terrena. Ma poco importa: è scomparso da poco ed è già entrato nel mito
Il 27 marzo 1975 il ragionier Ugo Fantozzi saliva per la prima volta a bordo della sua Bianchina, destinazione Ufficio Sinistri della Megaditta ItalPetrolCemeTermoTessilFarmoMetalChimica. Tutto ciò, nelle sale cinematografiche, perché il personaggio letterario era già attivo da qualche anno: dal 1968, quando Paolo Villaggio iniziò a pubblicare sull'Europeo i racconti ispirati alle gag che lui stesso interpretava in tv nel programma "Quelli della Domenica", e dal 1971, quando i monologhi di Fantocci - come l'autore lo chiamava all'epoca - furono raccolti da Rizzoli in un libro che in pochi mesi vendette un milione di copie, primo di una serie di fortunati bestseller.
Ma nei cinema l'avvento di quel travet in mutande ascellari e baschetto d'ordinanza fu uno shock. L'Italia era improvvisamente nuda, con tutte le sue miserie e meschinità. Uno spaccato di desolazione aziendale che Villaggio aveva mutuato dalla sua esperienza all'Italsider. In quei corridoi interminabili sono nati idealmente personaggi leggendari, come il solerte ragionier Filini, instancabile organizzatore di manifestazioni ricreative, il cialtronissimo geometra Calboni, l'agognata (e sguaiatissima) signorina Silvani, più una pletora di sadici megadirettori - galattici, centrali o laterali - dal subdolo Duca Conte Balabam al superstiziosissimo Duca Conte Semenzara, patito del gioco d'azzardo, passando per il Visconte Cobram, ideatore dell'omonima coppa ciclistica, e il temutissimo cinefilo Guidobaldo Maria Riccardelli, capace di organizzare a tradimento proiezioni di film cecoslovacchi con sottotitoli in tedesco la sera di Italia-Inghilterra.
Fantozzi ha la forza caricaturale di un cartone animato, ma più che a (anti)eroi dell'animazione come Homer Simpson, cui pure qualcuno l'ha paragonato, può essere accostato a un personaggio di Gogol (non a caso vincerà proprio il Premio Gogol in Unione Sovietica, nella sezione "migliore opera umoristica"), di Kafka (ebbene sì, c'è anche chi ne ha scritto un libro: Emilio Cagnoni - "Fantozzi Kafka", L'Epos, 2007) oppure alle maschere chapliniane: di queste ultime incarna la natura tragica e comica insieme, ma anche il messaggio di ribellione, celato dietro le sembianze bonarie da Puccettone - come è solito appellarlo l'odioso Calboni, accompagnando l'epiteto con immancabile pizzicotto sulla guancia. Pur riversando principalmente in famiglia le sue frustrazioni, a spese della malcapitata moglie Pina e dell'orrenda figlia Mariangela, Fantozzi è infatti capace di inaspettati e titanici scatti d'orgoglio. Come quando, nell'umiliante partita a biliardo con il feroce Catellani, "al 38° coglionazzo e a 49 a 2 di punteggio", inanella tre colpi da ko ("rinterzo ad effetto con birillo centrale", "calcio a 5 sponde" e "triplo filotto reale ritornato con pallino"), vedendosi poi costretto a sequestrare la madre dell'imbufalito Cavaliere Conte. Oppure quando, suggestionato dall'ideologia comunista del sovversivo ragionier Folagra, scaglia un sampietrino contro la vetrata aziendale, subendo una tragica convocazione ai piani alti dell'azienda e la condanna a ripartire dal gradino più basso della carriera: parafulmine. La rivolta più celebre, però, resterà quella al cospetto del suddetto professor Riccardelli, quando, al termine dell'ennesima proiezione forzata, sbotterà nella fatidica frase "La Corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!", incassando 92 minuti di applausi.
Con la saga di Fantozzi, Villaggio cambia la comicità, ma soprattutto il lessico degli italiani - come gli riconoscerà anche Federico Fellini - grazie a una sfilza di espressioni memorabili, frutto della stessa penna raffinata che insieme a Fabrizio De André aveva partorito la ballata "Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers". Aggettivi come "mostruoso", "pazzesco", "orrendo", "tragico", "pauroso" iniziano a uscire dai loro ordinari contesti semantici per descrivere le situazioni più disparate. Prendono piede i neologismi e le frasi idiomatiche: "megadirettore galattico", "mutande ascellari", "salivazione azzerata", "fogna di Calcutta"... E cambiano perfino gli status-symbol: la lotta di classe non è più "flanella contro cachemire", bensì "scrivania nel sottoscala contro poltrona in pelle umana", "naif jugoslavo alla parete contro acquario con gli impiegati che nuotano".
Villaggio è il protagonista assoluto, non solo come interprete - perfetto, malgrado le incertezze iniziali che lo avevano spinto a proporre invano la parte a Pozzetto e Tognazzi - ma anche con la sua impareggiabile voce narrante. Ma le fortune di Fantozzi dipendono anche da una straordinaria umanità di comprimari e caratteristi, che la commedia italiana in quegli anni d'oro poteva permettersi: Liù Bosisio prima e Milena Vukotic poi a prestare generosamente il loro volto alla sventurata Pina, Plinio Fernando opportunamente truccato per interpretare la mostruosa figlia Mariangela, l'occhialutissimo Gigi Reder nei panni dell'amico Filini, l'incontenibile Anna Mazzamauro alias Silvani in Calboni, lo stesso Calboni, prototipo dell'italiano furbo, ruffiano e sciupafemmine, reso immortale dal ghigno baffuto di Giuseppe Anatrelli, più la pattuglia di direttori, tra i quali piace ricordare Ugo Bologna nei panni di Corrado Maria Lobbiam, sotto il cui sguardo severo si consumerà una esilarante cena aziendale, condita dal fulminante botta e risposta: "Come sto andando?". "Male, per Dio!".
L'impatto di Fantozzi sul costume nazionale è definitivo: nessun Capodanno avrebbe mai rinunciato al ricordo dell'infame Maestro Canello e del suo festeggiamento anticipato, nessuna cena sarebbe stata più esente da battute sull'abito fantozzianamente inadeguato o sul cibo rovente a 18.000 gradi Fahrenheit, e su ogni vacanza avrebbe sempre aleggiato la nuvoletta piovosa dell'impiegato. Anche se, in realtà, l'abbrivio della saga ha un bersaglio temporalmente identificabile: l'Italietta degli anni 70, quella dei colletti bianchi, ormai già impelagata in un coacervo di nepotismo, arrivismo e corruzione, tra stuoli di Lup. Man., Gran Farabut e Figl. di Gr. Putt., ma anche quella della nobiltà decaduta - simbolizzata dalla ineffabile Contessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare - buona al massimo per organizzare cene a Cortina o varare navi, e di una classe media impiegatizia pavida e fannullona, ritratta in istantanee-cult, come quella delle partite a battaglia navale o a ping-pong sulle scrivanie e della gigantesca fuga collettiva a fine orario. "Venivano considerati guru del non far niente, il loro era un lavoro stupido e ripetitivo, guadagnavano poco, così farsi assumere in un'azienda e poi fare nulla dalla mattina alla sera diventava un atto eroico", racconterà Villaggio.
Era l'Italia del posto fisso, nel senso deteriore del termine, con le sue aziende-ministero avviate al tramonto dell'era industriale. Un paese in cui il dialetto veniva faticosamente sostituito da una lingua nazionale, con tanto di scivoloni sui congiuntivi: indimenticabile lo scambio Fantozzi-Filini durante una proibitiva partita di tennis "dalle 6 alle 7 antelucane": -Filini: "Allora, ragioniere, che fa, batti?". -Fantozzi: "Ma, mi dà del tu?". -Filini: "No, no, dicevo, batti lei?". -Fantozzi: "Ah, congiuntivo?". -Filini: "Sì!". -Fantozzi: "Aspetti!".
Nel corso degli anni Fantozzi continuerà a raschiare il fondo dei bassi istinti tricolori, sbandierando icone-simbolo dell'italianità media, che siano le vestaglie di flanella, il bidè, il frittatone di cipolle, il rutto libero, le canotte di lana, il calcio o il telecomando, nuovo strumento di potere domestico utilizzato anche per fotografare l'esplosione delle tv private, come nella scena del delirante zapping notturno ("380 cambi di canale in 26 secondi netti!"), con l'immancabile epilogo hot nella "ora in cui le famiglie si ritirano sconfitte: l'ora di proibito, di vietatissimo, di Oroscopone, super porno show", in cui un allupatissimo Fantozzi abbraccerà il televisore al culmine di uno strip-tease, finendo per sintonizzarsi su un prete.
Nessuno, in Italia, aveva mai fatto ridere così, con quello strano miscuglio di comicità grafica (la lingua felpata, le mani spugnate, i rutti con effetto-valanga) e fisica-parodistica, a metà tra Charlot e il circo. E soprattutto nessuno era mai stato così feroce, trasformando l'umiliazione in sghignazzo. Con punte di crudeltà assoluta, come nella scena in cui la piccola Mariangela viene scambiata per la scimmietta del circo. Ma Fantozzi è anche il più celebre incassatore, pardon, parafulmine, del cinema italiano: totalmente inerte di fronte al destino avverso, perfino quello sentimentale ("Ugo, io ti stimo moltissimo" sarà il massimo riconoscimento che otterrà dalla moglie), riesce sempre, in qualche modo, a restare a galla, un po' come l'Italia stessa, vessata, umiliata, offesa, eppure in qualche modo capace di tirare avanti. "All'inizio la gente rideva e basta, ma si sentiva anche aggredita - spiegherà Villaggio - poi subentrò la gratitudine. Fantozzi è un subitore perfetto, ha liberato tutti dalla spiacevole sensazione di sentirsi unici nel proprio essere sfigati. Era come una seduta terapeutica, gli spettatori seguivano le sue avventure e pensavano: forse è vero, siamo tutti così".
Una iperbole vivente e una maschera geniale, a cui si può perdonare l'agonia degli ultimi capitoli della venticinquennale saga, iniziata sotto lo sguardo grottesco di Luciano Salce, nei primi due memorabili atti, e mantenutasi su buoni livelli almeno per un paio d'altri, a firma Neri Parenti. Oggi, come allora, di Fantozzi e della sua satira al vetriolo, c'è un disperato bisogno: "Venghi, ragioniere, venghi".