Bizzarro mestiere quello di Ray Breslin, moderno Lupin che si dedica a fuggire da strutture carcerarie ritenute inviolabili, al fine di testarne la sicurezza per conto del governo. Dotato di una ferrea memoria e un'incredibile capacità di concentrazione, che lo porta a intuire l'allestimento degli spazi meglio di un impiegato del catasto, Breslin pianifica stratagemmi al limite del verosimile, educando aspiranti evasori col suo best-seller sull'arte della fuga. Non a caso il libro fa capolino sulla scrivania di Hobbes (Jim Caviezel, in un ruolo che avrebbe richiesto gli scatti nervosi del compianto Anthony Perkins), malvagio e al contempo raffinato direttore di un nuovo penitenziario di massima sicurezza dall'incantevole nome "La tomba", finanziato da privati e curiosamente estraneo a una precisa localizzazione geografica. Ingannato, Breslin finirà coll'esservi rinchiuso e fuggire da quell'infernale sepoltura si rivelerà la prova più complessa della sua carriera di fuggitivo.
Ormai è evidente, ci sono interpreti che eccedono i film di cui sono protagonisti, fino ad imprimere un marchio di pregevolezza sulla mediocre superficie di pellicole stantie, impregnate di già visto. E si tratta di un modello attoriale che inutilmente si cercherebbe di scovare al di fuori della produzione Usa, paradossalmente proiettata, da potenza tecnologica qual è, verso le inesplorate frontiere del digitale (Cameron, Zemeckis e Jackson) e, al contempo, ferita nel suo umanesimo artigianale dal proliferare dell'estetica high-tech. Eppure, si diceva, c'è chi resiste, chi crede ancora nelle possibilità di un mondo analogico, in cui, prima dei corpi, sia la sincerità di approccio al cinema di genere, la fedeltà al pubblico e la celebrazione del puro intrattenimento ad essere messa in scena.
Da qualche anno Stallone sembra essersi fatto ambasciatore di questo cinema dichiaratamente nostalgico, disposto a scavare nell'intertestualità per costruire una ragnatela di riferimenti capace di imbrigliare i suoi riflessi attoriali nelle forme di un archetipo. Non è affatto un esperto di sistemi di sicurezza il protagonista di "Escape Plan"; nel Ray Breslin di Sly converge la memoria delle sue precedenti incarnazioni, fieramente esibite sulle mani nerborute, sulle pieghe del collo taurino, fino all'immancabile smorfia che ne illumina l'interpretazione col sinistro piacere del
déjà vu. Ogni suo gesto, sguardo o ghigno assume una portata che va ben oltre il caso specifico, iscrivendosi nel folclore di un contesto pronto a farsi mitologia del corpo dell'attore.
Peccato che la scialba regia del mestierante Håfström non riesca a catturare il potenziale in nuce nell'ironico confronto tra Sly e l'ex governatore della California Schwarzenegger, concedendosi inutili fantasie orwelliane in un noioso
panottico high tech, prima di tuffarsi nel giochino auto compiaciuto di rimandi e citazioni, che, se nel celebrato "
I mercenari" (non a caso regia di Stallone) vibrava di un piacere palpabile nell'anacronismo con cui omaggiava quel cinema action anni Ottanta, fatto di corpi e cicatrici e corroborato da un'etica goffa quanto sincera, scade, qui, nella stanca monotonia di gesti asettici.
E non bastano alcuni momenti di pura passione cinematografica, quale l'idilliaca scazzottata che vede impegnati i due protagonisti, per risollevare le sorti di uno script confuso e incapace di scegliere un punto di vista, precario com'è tra dramma carcerario, strizzate d'occhio all'attualità, fughe impossibili in stile McGyver e malinconico ossequio a una mitologia in declino.
Al netto di poche sequenze indovinate, tra cui una divertita performance in cui tutti i carcerati improvvisano un incontro di wrestling, e molte lungaggini "Escape plan" si trascina stancamente verso un finale che ci lascia sul volto lo stesso ghigno del protagonista.
Forse gli amanti più assidui del "dinamico duo" riusciranno perfino a divertirsi. Per gli altri la noia è dietro l'angolo.
22/10/2013