Hilary è la dipendente di un cinema nella contea del Kent, in Inghilterra; assume litio e vede uno psichiatra; cita a memoria i poeti Alfred Tennyson, Thomas Sterne Eliot, Wystan Hugh Auden e possiede una sensibilità garbata, fragile come il castello di sabbia che ha costruito sulla spiaggia. Poi ha questo sorriso dubbioso, educato, che morde il labbro inferiore e lascia i denti sporgenti. Hilary è Olivia Colman, già premio Oscar e Coppa Volpi per ”La favorita“, caratterizzata, in ”Empire of Light“ da una bellezza dolce e nervosa, come un vaso di pregio prossimo a rompersi.
La maggioranza delle scene è girata in questo cinema, fatto di due ambienti opposti: il cinema vero e proprio, con il suo arredo elegante e il pubblico di classe, e un controcinema, un’ala della struttura abbandonata da anni, buona per dare rifugio ai colombi e asilo a Hilary e al collega Stephen (Micheal Ward). Sono i destini possibili del cinematografo, in parallelo: la chiesa e la cappella sconsacrata, la sacralità dell’immagine e la desolazione del cemento, il fermento della sala e il presagio della sua chiusura. Ma non è ancora tempo di crisi per l’impresa gestita da Donald (Colin Firth, attore di per sé eccellente, nei panni di un personaggio piatto). È attesa piuttosto, e con trepidazione, la prima di un film, ”Momenti di gloria“ di Hugh Hudson (1981). Il cinematografo è ancora luogo di festa, ricordo luminoso di un’epoca sbiadita.
La storia di ”Empire of Light“, poco densa, fatica a prendere forma; d’altro canto il ritmo è agile, il montaggio asciutto e le due ore della pellicola scorrono via più rapidamente di quanto si creda. Mendes, prima di questa opera, si era misurato con temi e timbri molto diversi: dallo scioccante esordio ”American Beauty“ (cinque Oscar nel 2000, tra cui miglior regia e migliori attore e attrice, Kevin Spacey e Annette Bening) al film di mafia ”Era mio padre“ (miglior fotografia a Conrad L. Hall), dalla comicità eccentrica di ”American Life“ al dramma coniugale ”Revolutionary Road“ (tre nomination agli Oscar), fino al capolavoro in piano sequenza ”1917“ (miglior fotografia, migliori effetti speciali e miglior sonoro agli Academy del 2020, con Mendes che sfiora il secondo Oscar alla regia); una filmografia attraversata pure da due 007 e ”Jarhead“.
Con ”Empire of Light“, d’improvviso, il regista ha scelto toni delicati. Se Kate Winslet in ”Revolutionary Road“, per esempio, esplodeva in un’isteria disperata, Hilary contiene il suo malessere con dignità, scoppiando, al limite, in atteggiamenti buffi; al collasso domestico e sociale di ”American Beauty“, Mendes preferisce, questa volta, la crisi come fatto privato, come ostacolo da superare, una volta di più, e null’altro. Un diverso tatto è applicato pure alla fotografia (Roger Deakins), priva di ricerca, con le inquadrature larghe, perché al regista interessa la vicenda della protagonista e le relazioni tra i personaggi. Fa eccezione la bella inquadratura di Hilary che piange, al rientro a casa, piegata contro la porta: una semplice composizione riassume il dramma sommesso. Anche la colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross, morbida come le musiche di ”American Beauty“ e ”Revolutionary Road“ (entrambi firmati da Thomas Newman), partecipa a questa tonalità; e dopo il ricovero di Stephen le note sembrano farsi ancora più soffuse. L’intreccio segue l’andamento musicale e si scioglie ancora.
Il regista ha tralasciato le complessità drammaturgiche e tecniche della sua produzione precedente, sacrificando la possibilità di stupire, offrendo qualcosa di diverso e popolare. E questa scelta pareva aver convinto il pubblico del cinema Massimo di Torino, in occasione della prima nazionale dello scorso dicembre: gli spettatori, colmata da sala, ridevano con continuità. L’umorismo pacato di ”Empire of Light“ funziona. Sam Mendes dimostra, come in passato, di saper scegliere uno stile proporzionato al racconto che intende presentare.
E il messaggio, se si vuole, è tutto riassunto in pochi fotogrammi. Come accadeva in ”Nuovo cinema paradiso“ di Giuseppe Tornatore, nella cabina di proiezione avviene il mistero. Il macchinista (Toby Jones) insegna a Stephen a montare e sostituire le bobine tra un tempo e il successivo. ”La gente non deve sapere“, altrimenti la magia svanisce, dice l’operatore citando, forse, o forse è una coincidenza, l’adagio di Eduardo De Filippo. Hilary, questo personaggio anonimo e incantevole attorno al quale gravita l’esile trama, pur lavorando al cinema da anni, non ha mai visto un film. Quindi l’operatore organizza uno spettacolo per lei: ”Oltre il giardino“ di Hal Ashby (1979).
Se ”Nuovo cinema paradiso“ festeggia l’amore per la settima arte, ”Empire of Light“ loda l’amore per sé stessi; nel lungometraggio di Tornatore, Salvatore, che condivide la cabina di proiezione con Alfredo-Noiret, sbircia la sala e partecipa allo stupore del pubblico; in Mendes, la protagonista, unica spettatrice, con la sua prima visione impara finalmente a prendersi cura di sé; l’esperienza del cinematografo è collettiva nel primo racconto e intima nel secondo. E questa sequenza di ”Empire of Light“ vale l’intero film: la protagonista è rapita da uno schermo, sola al cospetto della finzione e, al tempo stesso, parte del mondo, come mai prima. Ecco, nel suo vero paradosso, l’incanto del cinema. E a Sam Mendes è bastata una scena, per ricordarlo.
cast:
Toby Jones, Michael Ward, Colin Firth, Olivia Colman
regia:
Sam Mendes
titolo originale:
Empire of Light
distribuzione:
Walt Disney
durata:
113'
produzione:
Sam Mendes, Celia Duval, Pippa Harris, Michael Lerman, Lola Olyide, Julie Pastor
sceneggiatura:
Sam Mendes
fotografia:
Roger Deakins
scenografie:
Neal Callow
montaggio:
Lee Smith
costumi:
Alexandra Byrne
musiche:
Trent Reznor, Atticus Ross