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recensione di Matteo Zucchi
7.0/10

Eileen

 
"I was upset."
Dal film, Eileen Dunlop

Nonostante le sue continue e non sempre chiare svolte narrative e la reticenza nel rappresentare la psiche dei suoi personaggi per motivarne le azioni, "Eileen" può essere definito senza molte esitazioni un film "chiaro". D’altronde le componenti più importanti della pellicola sono già tutte nella prima sequenza e si potrebbe addirittura affermare che l’elemento centrale del film sia evidente ancora prima che la storia abbia inizio: "Eileen", il nome della protagonista che campeggia nell’inquadratura al termine dei titoli di testa vintage, il primo dei molti elementi retromani di un’opera che fa della rappresentazione mimetica degli anni 60, e ancor più del cinema di quegli anni, uno dei suoi pilastri. Ma ancora più fondamentale di questo aspetto stilistico è, nella logica della pellicola, appunto l’eponima protagonista, ottimamente rappresentata da Thomasin McKenzie alle prese col suo ruolo probabilmente più complesso, la quale non a caso appare in scena alla fine dei titoli di testa, intenta a scrutare, tramite il riflesso dello specchietto dell’auto, una coppia che amoreggia in auto. Questo almeno fino a che il desiderio scopico della ragazza, e quindi  prevedibilmente anche quello degli spettatori, non viene provvidamente raffreddato da una manata di neve nelle mutande. E allora si può incominciare.

Non lasciando praticamente mai l’inquadratura (e quando ciò avviene è solo per rappresentare lo sguardo della ragazza in forma di soggettive) Eileen si pone quale nucleo attorno a cui gravita ogni elemento dell’omonimo film, sebbene sia fin da subito connotata come una presenza marginale nei contesti in cui si muove, esclusa dalle conversazioni e spesso relegata ai margini della stretta (e retrò, ça va sans dire) inquadratura in 5:3, frequentemente immobile e priva di agency. D’altronde, come afferma lo stesso padre della ragazza, all’interno di un dialogo forse fin troppo didascalico, Eileen non è "una vera persona […] una di quelle che guardi, come nei film, una di quelle che fanno le cose". Eileen guarda (e infatti lavora come assistente e sorvegliante in un carcere minorile), mentre gli altri agiscono, e al massimo immagina di agire, come avviene molte volte nel corso della pellicola, in brevi parentesi in cui le fantasie, principalmente sessuali e di violenza, della ragazza vengono messe in scena senza però venire connotate in alcun modo come immaginarie. Anche in questo "Eileen" e la sua eponima protagonista sono molto simili, proseguendo lungo binari narrativi che paiono ineludibili e privi di sorprese, almeno fino a che lo scrutare della ragazza non farà accadere veramente qualcosa.

Un simile grado di focalizzazione sulla propria protagonista finisce per superare pure quello già adottato da William Oldroyd nel suo primo lungometraggio, l’a sua volta (circa) eponimo "Lady Macbeth", in cui le passioni e le ossessioni di un’altra sgradevole e complessa protagonista si facevano motore della narrazione senza che però l’intera pellicola adottasse fin dall’estetica (in primis dalla fotografia dai colori freddi e dall’illuminazione a tratti quasi naturalistica) l’apparenza anodina e dimessa del suo personaggio principale. Ciononostante, i punti di contatto fra le due pellicole di Oldroyd sono evidenti e copiosi, dalla matrice letteraria (lì era il romanzo "Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk" di Nikolai Leskov) alla cura nella messa in scena del passato, senza dimenticare ovviamente la rappresentazione di donne all’interno di un contesto rigidamente patriarcale, tematica complessa e ambiziosa destinata a reggersi sulle esili ma invero solidissime spalle delle proprie interpreti (fig. 1-2). Sebbene inizialmente priva della volitività e spietatezza della Katherine interpretata da Florence Pugh, Eileen si fa similmente immagine di un modello di femminilità in trasformazione, costretta alla trasformazione dal mondo che cambia (o che si rifiuta di cambiare, come nella provincia del Massachusetts), e pertanto apparentemente scostante e di difficile comprensione.


Fig. 1-2: affinità e divergenze fra le protagoniste dei film di Oldroyd

Un altro elemento caratteristico della protagonista del primo film di Oldroyd era la sgradevolezza, tratto che contribuiva a rendere tridimensionale un personaggio altrimenti quasi privo di sfaccettature, dato il volutamente ridotto scavo psicologico della sua personalità. Questo elemento ha probabilmente contribuito all’interesse del regista britannico per la quasi altrettanto poco simpatica protagonista del romanzo "Eileen" della scrittrice Ottessa Moshfegh, autrice che d’altronde si è specializzata nel racconto di "unlikable female characters" e dei loro misfatti. Ambedue inserite in maniera perfetta, all’apparenza, in un ruolo femminile coerente, quasi esemplificativo, del proprio periodo storico, Katherine e Eileen si mostrano progressivamente meno vicine allo stereotipo di quanto paresse inizialmente. Se da una parte la prima inizia un tortuoso e crudele processo di liberazione di sé e dei propri desideri, laddove era stata costretta nel ruolo di oggetto da contemplare (il marito che non ha rapporti sessuali con lei ma si masturba guardandola), fonte perciò di puro piacere visivo (fig. 1), Eileen dall’altra dimostra subito di non essere né una nurturing donna di casa che sostiene e mantiene il padre ex-poliziotto alcolizzato, né una giovane casta e proba, costantemente avvinta com’è da fantasie sessuali e truculente (fig. 2).

Al netto delle differenze e delle somiglianze fra le due protagoniste dei film di Oldroyd, una cosa che attrae subito l’attenzione a uno sguardo critico è proprio il contesto in cui le donne si muovono, ovvero l’Inghilterra vittoriana e i primi anni 60 statunitensi, due milieu che non a caso hanno avuto un ruolo rilevante nella definizione di molti dei tratti della femminilità "tradizionale", proprio quella con cui Katherine ed Eileen si scontrano. Nel secolo che separa le due molte cose sono avvenute per quanto riguarda i diritti delle donne e ciò ha contribuito sicuramente, in un qualche modo, all’osservabile scarto iniziale fra le "unpromising young women" di Oldroyd, in quanto Eileen è ben più soggetto guardante di quanto sia oggetto di sguardi altrui, come evidenziato sia dalla ripetizione dell’immagine di lei che scruta sia dalla totale indifferenza riservatale da quasi tutte le persone che la circondano (fig. 2). La difficoltà, per la giovane donna interpretata da McKenzie, è che alla propria attività dello sguardo non corrisponde un’attività dell’agire, elemento enfatizzato dall’immobilità con cui viene spesso rappresentata (mentre dorme, riposa, fantastica, si masturba, si guarda allo specchio etc.). A questo punto lo sguardo di Eileen si posa però su un’altra (meno) giovane donna, dinamica, affascinante ed esuberante fin dalla chioma bionda e dagli abiti sgargianti da femme fatale (fig. 3), e, quasi come di riflesso (l’onnipresenza di specchi e riflessi nella pellicola), la giovane acquisisce finalmente una propria agency.

La rampante psicologa proveniente da Harvard Rebecca è fin dall’aspetto quanto più lontana possibile da Eileen, eppure fra le donne sorge (tramite lo sguardo della ragazza) un’inattesa intesa, solo in parte motivata dalla percepita alterità delle due rispetto al contesto sociale in cui si muovono. Si può suggerire che in realtà ancora una volta molto di ciò che viene messo in scena sia conforme alla prospettiva di Eileen e che quindi il fascino che la psicologa interpretata da Anne Hathaway trasuda nelle prime scene in cui appare sia determinato in primis dallo sguardo carico di interesse della ragazza. Non sembra difatti casuale che quando la narrazione intraprende la sua ultima, la più netta, svolta narrativa, e quando Eileen conquista finalmente una agency individuale, Rebecca si faccia non solo meno risoluta e in generale meno brillante ma anche più spenta a livello di colori della mise e più dimessa a livello di recitazione, per poi sparire addirittura dal film, alla fine (fig. 3). Questo ruolo come attivatrice della agency del personaggio principale mediante l’atto di essere guardata, oltre ovviamente al nome e alla capigliatura bionda, fa di Rebecca un personaggio palesemente hitchcockiano, quasi un deus ex machina nella forma di un’affascinante donna bionda, che dopo essere stata contemplata può solo morire, reificarsi o sparire[1].


Fig. 3: Rebecca: modelli e decostruzione di una femme fatale

La centralità dello sguardo nell’impianto discorsivo di "Eileen" e i numerosi riferimenti al cinema di Alfred Hitchcock (e più in generale al noir classico e al cosiddetto woman’s film[2]) rendono facile avvicinare il film di Oldroyd alle riflessioni della cosiddetta feminist film theory e nello specifico al filone inaugurato dalla critica (e regista sperimentale) Laura Mulvey. A partire dall’influente saggio del 1973 "Visual Pleasure and Narrative Cinema" la studiosa britannica ha difatti intrapreso lo studio dei modi di rappresentazione del cinema classico hollywoodiano mediante le lenti della psicoanalisi e della filosofia post-marxista, dedicando particolare attenzione al "tradizionale ruolo esibizionistico" delle donne nel cinema classico, ove vengono spesso ridotte a "essere oggetto dello sguardo"[3]. Se nella sovrapponibilità concettuale fra sguardo (preminentemente maschile) e narrazione che Mulvey vede come propria del cinema classico la rappresentazione della donna diviene quindi un elemento sia di attivazione, dello sguardo e della narrazione, sia di loro potenziale ostacolo, l’interpretazione di questa logica adottata da Hitchcock risulta più stimolante nell'analisi di "Eileen".

Nella dimensione voyeuristica del cinema del grande regista britannico si persegue la sovrapposizione precisa dello sguardo dell’eroe e di quello del pubblico, da cui la ricchezza di soggettive che saldano questa omologia, finendo però per affermare "l’ambiguità morale del guardare"[4] e quindi disorientare lo spettatore, in maniera simile a come spesso avviene nel film di Oldroyd, in cui non si è spesso più certi di cosa sia reale e cosa sia fantasia della protagonista eponima, e soprattutto in che misura i due piani siano mescolati (si pensi al montaggio delle sequenze prefinali). Se una delle critiche più frequenti al saggio di Mulvey prende le mosse dalla presenza di personaggi femminili attivi e guardanti anche nel cinema classico la risposta della stessa autrice può essere ancora più utile per mettere in prospettiva la peculiare natura contemplatrice di Eileen e il processo (violento e in parte inesplicabile) mediante cui consegue la propria agency. L’autrice ritiene difatti possibile un’identificazione femminile col soggetto attivo e guardante solitamente maschile nella forma di un’incarnazione "regressiva" che "riattiva per lei una fantasia di ‘azione’ che una corretta femminilità richiede venga rimossa" in modo da permettergli di "'ottenere il piacere' da storie di questo tipo"[5], come fatto da Eileen, la cui risolutezza si attiva in primo luogo nella sua fantasia quando si trova fra le mani la pistola del padre, non a caso uno dei più ricorrenti simboli del potere (maschile) nel cinema hollywoodiano.

Ma "Eileen" non è un film degli anni 40, né degli anni 60 cui si ostina a fingere di appartenere con quasi ogni elemento del profilmico, ma si sviluppa a valle rispetto alle riflessioni di Mulvey e grazie a una penna femminile, quella della scrittrice e qui sceneggiatrice Ottessa Moshfegh, motivo per cui può essere concettualizzato semmai come una riflessione su questi temi in un contesto squisitamente contemporaneo. In questo contesto gli sviluppi pulp degli ultimi 20 minuti della pellicola e lo spettacolare triello dialogico tutto al femminile che precede il finale trovano agevolmente il proprio posto, dimostrandosi necessari punti di passaggio di quello che si rivela un dirompente coming of age "oscuro" in cui l’ottenimento dell’agency da parte della protagonista non è "senza pace", ma nemmeno  la "resistenza all’ultimo sangue […] contro il potere del patriarcato"[6] descritta da Mulvey più di 40 anni fa. Semmai, si rivela piuttosto il quasi spontaneo frutto dell’imitazione di un modello a lungo contemplato, dell’ottenimento di uno strumento di potere (quasi una proppiana "arma magica") e dell’eliminazione fisica di un modello di femminilità tradizionale e per questo vituperato. E così, dopo che la proverbiale pistola di Cechov ha finalmente sparato nel mondo reale e non più solo nella propria immaginazione (forse per caso, forse no), Eileen passa così dalla fantasia di passività degli inizi (essere scopata come le ragazze delle coppiette da lei spiate) alla realtà di agency del finale, pronta verso nuove avventure.


Fig. 4: "Eileen" e "Last Night in Soho" a confronto, ovvero
i coming of age "oscuri" di Thomasin McKenzie

È legittimo, all’interno di una pellicola che fa della soggettivizzazione della prospettiva un elemento discorsivo così importante, dubitare dell’effettiva realtà di quel finale, e del conseguimento successivo della agency di Eileen, ma d’altronde questo rientra perfettamente all’interno della logica del secondo lungometraggio di William Oldroyd. "Eileen" è infatti una pellicola non facile, castrante, che compromette continuamente il "piacere visivo" (e narrativo) tanto indagato da Laura Mulvey ed epigoni fin dall’estetica che, oltre alla grana che imita il cinema degli anni 60, si distingue per una spesso ostica cupezza dell'immagine. La scelta di non mettere mai in scena i momenti più drammatici ma mantenerli semmai in forma dialogica e immaginaria e la spregiudicatezza con cui il film muta costantemente, attraversando sottogeneri e mettendo indecorosamente da parte personaggi e sottotrame, contribuiscono a farne un oggetto indefinibile e costantemente cangiante, così simile alla sua solo apparentemente piatta e banale protagonista, sotto la cui epidermide invece si agitano, in maniera similmente scomposta, passioni incontrollabili e fantasie grandiose.

Tutto ciò conduce non a caso a un finale né esplicativo né catartico, ma repentino e drastico come la manata di neve nelle mutande che introduce la narrazione, semplicemente aperto, spalancato verso tutte le possibilità che Eileen, ora padrona di sé, finalmente ha a disposizione. In questo modo "Eileen" si dimostra definitivamente un coming of age, per quanto "oscuro" nella misura in cui "nega la linearità del processo di maturazione e la necessità del suo raggiungimento"[7], e finisce così per ricordare un’altra recente pellicola con Thomasin McKenzie come protagonista, ovvero "Last Night in Soho", altra affascinante e sgangherata storia di rispecchiamenti identitari femminili, di (violenta e drammatica) emancipazione e di rappresentazione mimetica degli anni 60 (fig. 4). Se il film di Edgar Wright, a sua volta confuso nella sua strutturazione narrativa, abbracciava infine la propria natura di genere e conduceva la giovane protagonista verso l’ottenimento di un’identità definita, per quanto nuova e non priva di ambiguità, "Eileen" accetta invece la sua natura degenere e toglie anche quest’ultima soddisfazione agli spettatori. Infatti, a differenza del romanzo da cui è tratto, non vengono date ulteriori informazioni sul futuro di Eileen, ora, anche in questa maniera, libera di immaginare nuovamente la propria storia e la propria identità, padrona finalmente della mitica agency a lungo desiderata.



[1] V. Pravadelli, La grande Hollywood, Venezia, Marsilio, 2007, pp. 189-90

[2] Con questo termine si intende un filone di film degli anni 40 considerato come corrispettivo femminile del film noir, in cui viene messo in scena il complicato percorso di emancipazione di un soggetto femminile la cui interiorità si esprime in forme socialmente trasgressive. Cfr. Pravadelli, op. cit., pp. 162-3, e M. A. Doane, The Desire to Desire. The Woman’s Film of the ‘40s, Bloomington, Indiana University Press, 1987, p. 46

[3] L. Mulvey, "Piacere visivo e cinema narrativo", in V. Pravadelli, Cinema e piacere visivo, Roma, Bulzoni, 2013, p. 34

[4] Ivi, p. 40

[5] L. Mulvey, "Riflessioni su ‘Piacere visivo e cinema narrativo’ ispirate da Duello al sole", in V. Pravadelli, Cinema e piacere visivo, cit., p. 53

[6] Ivi, pp. 53-4

[7] M. Zucchi, "The Coming of a Dark Age. Il buio si avvicina, la decostruzione del genere e le contraddizioni degli anni 80 statunitensi", in A. Pettierre, F. Zanello, Kathryn Bigelow. L’arte del dinamismo plastico, Alessandria, Falsopiano, 2024, p. 107 [mi si perdoni l’autocitazione]


11/06/2024

Cast e credits

cast:
Thomasin McKenzie, Anne Hathaway, Shea Whigham, Marin Ireland, Owen Teague, Sam Nivola


regia:
William Oldroyd


titolo originale:
Eileen


distribuzione:
Lucky Red


durata:
98'


produzione:
Fifth Season, Film4, Likely Story, Omniscient Films


sceneggiatura:
Luke Goebel, Ottessa Moshfegh


fotografia:
Ari Wegner


scenografie:
Craig Lathrop


montaggio:
Nick Emerson


costumi:
Olga Mill


musiche:
Richard Reed Parry


Trama
La giovane Eileen Dunlop vive, negli anni 60, in un'anonima cittadina del Massachusetts insieme al padre, ex-poliziotto alcolizzato, lavorando come assistente in un carcere minorile. La sua vita, estremamente routinaria e arricchita solo da piccole ossessioni, inizia a cambiare quando arriva nella struttura la nuova psicologa, l'affascinante Rebecca Saint John, la quale la prende subito in simpatia. Fra le due donne, che non potrebbero sembrare più diverse, nasce un inatteso, stretto, legame, capace di condurre a conseguenze impreviste.