C’è un mondo prima e un mondo dopo “Edward mani di forbice”. Quella compiuta da Tim Burton con il suo quarto lungometraggio da regista, infatti, è una rivoluzione che travalica i confini del cinema. Si può dire forte e chiaro che l’avvento del dolce Edward abbia esercitato sulla pop culture un impatto tanto forte quanto quello provocato dal suo arrivo nel vicinato a colori pastello della famiglia Boggs.
Prima di “Edward Shissorhands” sarebbe stato difficile pronosticare che tutti i creep, i weirdo, i nerd, i geek, i goth, i punk, gli emo, e chi più ne ha più ne metta, avrebbero avuto un loro proprio eroe del cinema mainstream. Altrettanto difficile sarebbe stato prevedere che questi avrebbe mutuato l’arruffato taglio da capelli da un’icona gothic-rock come Robert Smith. Ai fan più sfegatati dei Cure non sarà peraltro sfuggito che il loro beniamino avrebbe anche potuto firmare la colonna sonora del film di Burton, se non avesse declinato l’invito, impegnato com’era con le registrazioni del capolavoro “Disintegration”. Poco male, perché giocoforza il cineasta californiano ha ripiegato ancora una volta su Danny Elfman, anch’egli con un discreto passato new wave a tinte dark alla guida dei Mystic Knights Of The Oingo Boingo, corroborando così uno dei rapporti regista-compositore più solidi della storia del cinema e ottenendo quella che in tutta probabilità rimane la colonna sonora originale di Elfman più iconica – reggono forse il confronto soltanto quella di “Tim Burton’s Nightmare Before Christmas” e il tema realizzato per la sigla di “The Simpsons”.
Tim Burton ha quindi creato un vero e proprio eroe contro-culturale, destinato a permanere nella memoria collettiva. Dove c’è un eroe non c’è però necessariamente una vittoria o una rivincita. Quella scritta, architettata e diretta da Burton è una favola nera il cui finale non lascia scampo al suo protagonista, nuovamente ed eternamente emarginato nella sua magione oscura e romantica.
Oltre che per il devastante impatto estetico, che fonda difatti uno degli imperi più immaginifici e riconoscibili del cinema moderno, è mediante l’identificazione con il destino del timido Edward che intere generazioni di loser e underdog lo avrebbero erto a loro romantico e immarcescibile feticcio. Simbolo di isolamento, solitudine e scherno quanto, di riflesso, di disallineamento, stravaganza e preziosa diversità.
È incredibile quanto quello della sua creatura più amata, il destino del suo creatore. Certo, due anni prima aveva realizzato “Batman”, ma prima di inaugurare la vita cinematografica del vigilante di Gotham City, Burton aveva all’attivo soltanto la partecipazione tecnica ad alcuni lungometraggi animati Disney, lo stravagante “Pee-wee's Big Adventure” e la commedia nera e surreale “Beetlejuice”. I primi sintomi di genio e le tracce di un’estetica coerente quanto potente erano sì già evidenti, ma nulla ancora poteva far presagire che ci trovassimo al cospetto di una sorta di versione gotica dello Spielberg per famiglie, che avrebbe marchiato indelebilmente la storia del cinema, da box office e non.
Il primo Edward e la sua storia
La connessione tra Burton e “Edward Shissorhands” è tutt’altro che fortuita, è anzi dichiarata, ostentata ed essenziale alla comprensione del personaggio e delle sue disavventure.
Come non sfuggirà ai suoi più appassionati ammiratori, ogni volta che il regista di Burbank ha infiltrato consistenti dosi di sé stesso e delle proprie esperienze nei suoi personaggi, questi si chiamano Edward. Sarebbe successo con “Ed Wood”, simbolico doppio di Burton realmente esistito, famoso come “il peggiore regista di sempre” ed emblema della passione smisurata e bulimica del cineasta per la settima arte, specie nelle sue derive più oscure e orrorifiche. Un altro Edward, Bloom, sarebbe stato invece il protagonista dell’ultimo capolavoro del regista, “Big Fish” del 2003, e avrebbe rappresentato invece la necessità di Burton di raccontare storie, di distorcere la realtà per raffigurarne al meglio la polpa.
La tradizione comincia però proprio con “Edward Shissorhands”, primo Edward e unico nato interamente dalla penna, anzi dalla matita, di Tim Burton.
"I get the feeling people just got this urge to want to leave me alone for some reason, I don't know exactly why", ha raccontato Tim Burton ricordando in una intervista l’adolescenza trascorsa a Burbank in California, poco lontano proprio da Hollywood. Fu in questo periodo di isolamento e solitudine che il giovane Tim disegnò un magro e smunto ragazzo dall’abbigliamento gothic con delle lunghe lame al posto delle mani.
Anni dopo, durante la pre-produzione di “Beetlejuice”, quell’immagine tornò a tormentare il regista, che ne fu ispirato al punto da sentire la necessità di confezionargli una storia. Per darle forma, prima nelle vesti di racconto e poi di script cinematografico, Burton si avvalse della collaborazione della giovane scrittrice Caroline Thompson, il cui “First Born” - romanzo che narra di un feto abortito che torna in vita - lo aveva colpito enormemente. Una immagine così scolpita nell’immaginario collettivo che anche solo accennare alla diegesi di “Edward mani di forbice” e ai suoi significati appare superfluo.
Un vecchio inventore interpretato da Vincent Price, autentico mito d’infanzia di Burton qui al suo ultimo grande ruolo, muore quando è sul punto di ultimare la sua creazione più ambiziosa. Un umanoide gentile e romantico che rimane così privo dell’ultimo dettaglio mancante: le mani, in luogo delle quali ha delle lunghe e adunche forbici.
Dopo anni di reclusione e isolamento nel castello dell’inventore, Edward (Johnny Depp) viene scoperto dalla premurosa Peg Boggs (una materna Dianne Wiest), rappresentante di cosmetici recatasi al di fuori del suo solito giro in cerca di nuovi clienti.
Pronta ad accoglierlo in casa e a sistemargli il viso sfregiato dalle forbici con un mix di fondotinta Avon, Peg introduce Edward nel suo soleggiato vicinato, dove l’incontro tra il giovane e gli abitanti della cittadina diventerà un feroce scontro tra i conformi e il “diverso”. Simbolo della diversità di Edward, le forbici dapprima intratterranno i giocosi vicini con fantastiche creazioni di alto giardinaggio e arte parrucchiera, per poi spaventarli con il pericolo e l’oscurità di cui sono foriere.
Ed sarà dunque dapprima accolto, o meglio fagocitato, dalla piccola società suburbana, per poi venirne rifiutato e brutalmente rigettato. A nulla potrà valere l’amore scoppiato tra lui e Kim (Winona Rider), la giovane figlia di Peg: condurrà, anzi, alle più terribili e luttuose conseguenze e dunque al definitivo, ineluttabile isolamento di Edward.
Per raccontare la storia dell’umanoide, Burton e la Thompson si sono avvalsi di una struttura a scatole cinesi. Una favola nella favola, dunque, che suona come un chiaro omaggio alle tradizioni favolistica nordica e gotica tanto amate dal regista. Numerosi, in particolare, i riferimenti all’adorato Edgar Allan Poe, a partire dal decrepito e minaccioso castello dell’inventore che incombe letteralmente sulla cittadina, nonché a fiabe come “La bella e la bestia” o all’ovvio “Frankenstein” di Mary Shelley.
È quindi un’anziana Kim a raccontare alla nipotina la fiaba dell’origine della neve, che sarà poi svelata in una delle scene più dolci e romantiche della produzione burtoniana e del cinema anni 90 tutto: Edward che scolpisce un angelo di ghiaccio sulle note di pianoforte delicate come cristalli e degli avvolgenti archi della “Ice Dance” di Danny Elfman – il momento più alto di una colonna sonora perfetta e più volte imitata, anche dal suo stesso autore.
Uno scarabocchio nero su un disegno a pastelli
Ispirato a Burbank ma girato in Florida nei pressi di Tampa, il paesino nel quale la famiglia Boggs introduce Edward, il film è stato realizzato da Burton e dalla sua troupe di tecnici utilizzando un quartiere residenziale preesistente. Con la sua struttura circolare, il Tinsmith Circle della cittadina di Luz ben esprime il senso di oppressione e di chiusura vissuto dal regista in quel di Burbank.
Per rendere il tutto ancora più straniante e paranoico, gli scenografi tinteggiarono ciascuna casetta di un colore pastello - si va dal verde al rosa al giallo canarino e al lilla - e ridussero le dimensioni delle finestre. Ancora più colorati ed estremi appaiono gli interni delle piccole case, così come gli abiti dei loro residenti, eccentrici quanto le loro messe in piega.
Quella che ne scaturisce è una messinscena che avrebbe ispirato intere generazioni di cineasti indipendenti a venire, a partire da Wes Anderson.
In questo tripudio di quadri in Technicolor, la sagoma pallida, arruffata e aguzza di Edward, bardata com’è in un’armatura di pelle nera e fibbie, buca lo schermo come fosse uno scarabocchio nero. Uno scip-sciap dal quale è impossibile distogliere lo sguardo. Il contrasto così forte tra Edward e questo mondo artefatto è quindi anzitutto visivo, ma la sua messa in scena è altrettanto potente, oltre che duttile nel lambire numerosi generi e toni.
“Edward mani di forbice” è prima di tutto una favola gotica, all’occorrenza può diventare però una commedia satirica, come quando le vicine dei Boggs quasi raggiungono l’orgasmo mentre Eddie gli sforbicia le voluminose chiome. Oppure una violenta tragedia, quando il Nostro trafigge e uccide Jim (Anthony Michael Hall), il fidanzato di Kim.
Il lavoro scenografico compiuto sul castello è altrettanto maestoso, con la magione che si trasforma in specchio della natura del suo abitante. Minaccioso nel suo oscuro incombere sulla cittadina dai mille colori, il fortino dell’inventore nasconde un giardino rigoglioso, così come le fattezze affilate e sciupate di Edward celano un animo puro e gentile.
Nel castello spiccano anche i macchinari creati dall’inventore. Giganteschi e tarchiati come golem, ma buffi e simpatici grazie ai loro bottoncini e pistoni disposti come facce, i marchingegni anticipano l’estetica ispirata ai lavori di Jan Svankmajer e dei fratelli Quay che avrebbe fatto la fortuna di Burton anche in fatto di animazione in stop motion. Fantastico anche qui l’apporto di Elfman, che fornisce alla danza dei macchinoni la giusta partitura, un po’ goffa e un po’ jazz, di fiati e archi.
Fisionomia di un mito
La straordinarietà e il successo di “Edward mani di forbice” risiedono però soprattutto nella forza immaginifica del suo protagonista. Come anticipato, con il suo “primo Edward”, Burton ha consegnato a un’intera generazione di outsider, e a nutrite frange di quelle che l’avrebbero seguita, un’icona immortale. Un simbolo semplice soltanto in apparenza, in realtà complesso e paradossale. Un personaggio dai molteplici livelli di lettura. Che vanno da un impatto estetico straripante, ottenuto mescolando gotico e pop culture, fino a un’enorme portata concettuale. Quella di una creatura tanto artefatta quanto pregna di umanità e spontanea, destinata dunque a cozzare rumorosamente con l’artificiosità degli uomini veri e propri.
Alle fondamenta del mito di “Edward Shissorhands” troviamo certamente la capacità di Burton di innestare in un personaggio tanto la sua intima e dolente esperienza giovanile quanto sentimenti potenti e universali. È stato poi altrettanto importante il lavoro di make artist e stilisti, capaci di dare forma a una proiezione della fantasia adolescenziale del regista, partendo semplicemente dal ricordo di un disegno.
Tutto ciò sarebbe stato però vano senza l’interpretazione maiuscola e irripetibile di Johnny Depp, l’attore che ha prestato il corpo e il volto all’icona, contribuendo a renderla tale. Dato anche un copione parlato davvero esiguo, per dare vita al personaggio il giovane Depp apprese come comunicare con il corpo, studiando quindi duramente l’utilizzo della mimica di Charlie Chaplin. Edward prese dunque vita grazie a un’interpretazione fisica ed emozionante, fatta di movenze impacciate, occhi sgranati ed espressioni che brillano di fanciullesco stupore. Al contrario di altri celebri personaggi di origini letterarie, essendo Edward Shissorhands nato per il grande schermo, è assolutamente impossibile immaginarlo senza le dolci e stravaganti fattezze di Johnny Depp.
Per la scelta dell’attore che sarebbe diventato presto un suo feticcio, al tempo noto soltanto come idolo per teenager grazie alla serie Tv “21 Jump Street”, fu ancora una volta decisiva la caparbietà di Tim Burton, che affrontò con tenacia le pressioni di una 20th Century Fox che avrebbe preferito un nome più noto. Fu fatto ad esempio quello di Tom Cruise, che però, una volta letto il copione, si disse deciso ad accettare soltanto nel caso in cui si sarebbe potuto optare per un finale meno triste. Ma ovviamente un lieto fine canonico avrebbe annientato la portata simbolica del personaggio e questo Burton non lo avrebbe mai permesso. Pur lavorando già per una major cinematografica, grazie alla sua intransigenza, il regista di Burbank non ha ceduto su nessun fronte e ha realizzato “Edward mani di forbice” esattamente come voleva, dalla scelta degli interpreti alla fotografia, dalle musiche fiabesche alle scenografie, che mixano i colori sgargianti del pop a quelli tetri del gotico. Tim Burton ha dato così inizio al suo mito, scrivendo e girando una delle storie natalizie più tenere e struggenti mai messe su pellicola, destinata a fondare tra le altre cose un nuovo canone di cinema per famiglie, lontano dai cliché che solitamente attanagliano il genere.
cast:
Johnny Depp, Winona Ryder, Dianne Wiest, Vincent Price, A
regia:
Tim Burton
titolo originale:
Edward Scissorhands
distribuzione:
20th Century Fox
durata:
105'
produzione:
Denise De Novi e Tim Burton per 20th Century Fox
sceneggiatura:
Caroline Thompson
fotografia:
Stefan Czapsky
scenografie:
Bo Welsh
montaggio:
Richard Halsey
costumi:
Colleen Atwood
musiche:
Danny Elfman