"Dual - Il clone" inizia con una sequenza inequivocabile rispetto allo stile del suo autore. Come succedeva nei precedenti lungometraggi anche in questo Riley Stearns ci porta nel bel mezzo dell’azione senza prendersi la briga di introdurre il protagonista, né di specificare la relazione tra lui e quello che gli sta succedendo. Una reticenza destinata a durare anche a fronte dei chiarimenti che giungono nel corso della storia, perché tra i temi raccontati dai film dell’autore americano vi è l’insondabilità della vita e delle sue componenti, a cominciare dalla particolarità dei rapporti umani, sempre incerti e conflittuali anche laddove non dovrebbero nascere conflitti per la famigliarità esistente tra le parti in causa. Così capitava all’esperto di controllo mentale alle prese con la sedicente vittima di una setta religiosa in "Faults" (2014), lo stesso accadeva tra l’allievo Jesse Eisenberg e il maestro di arti marziali Alessandro Nivola in "L’arte della difesa personale" (2019).
In "Dual" lo schema è destinato a ripetersi quando Sarah, ragazza senza arte né parte, è costretta a fronteggiare la necessità di confrontarsi con il clone che le ha rubato la vita e che si erge a nemesi nel momento in cui la protagonista sarà obbligata ad apprendere le tecniche di combattimento necessarie ad affrontare il duello che deciderà chi delle due dovrà restare in vita.
Dicevamo della sequenza iniziale, in un primo momento intellegibile proprio perché collegata in maniera nascosta al prosieguo del film e per questo foriera di oscuri presagi, con lo scontro tra un uomo e il suo doppio trasformato in uno spettacolo televisivo. Tra le poche informazioni che ci vengono date, una sola appare utile ai fini di una comprensione generale dell’architettura narrativa. Come spesso si verifica nel cinema di Stearns, il senso dell’azione è rintracciabile in particolari slegati dal contesto fattuale ma non per questo meno significativi. Così è il cameo di Theo James, funzionale a stabilire il collegamento tra l’universo di "Divergent" con il quale l’attore viene identificato - essendone stato il protagonista - e quello di "Dual", nel quale è chiamato a figurare non come personaggio vero e proprio (la sua apparizione termina con la fine del segmento iniziale) ma in quanto corpo distopico, necessario a definire la dimensione futuribile in cui da lì in avanti si svolgerà la vicenda. Analoga appare la scelta di Karen Gillan nel ruolo di Sarah, considerando che l’attrice inglese era stata a suo tempo Nebula, la piratessa spaziale nemica degli Avengers e dei Guardiani della Galassia.
Abituato a lavorare di sottrazione ma anche a giocare con l’immaginario dei suoi attori, Stearns sfrutta la memoria di quel personaggio per certificare il dark side che aleggia sulla ragazza e soprattutto sulla sua controparte. Salvo poi invertirne il segno, togliendo a Sarah le abilità belliche che erano state di Nebula quando la donna per prepararsi al duello dimostra tutta la sua inadeguatezza nel corso delle lezioni con il mentore (il rapporto tra allievo e maestro e la fascinazione del primo per il secondo è un tratto presente in tutta la filmografia del regista americano) incarnato da Aron Paul: anche lui come la collega alle prese con un personaggio in una certa misura agli antipodi rispetto al suo carisma da ribelle, dovendo pagare dazio al disimpegno del regista che a un certo punto spezzerà il rigore del suo alterego mettendolo nella condizione di prendere lezioni di ballo dalla sua allieva.
D’altronde, pur lavorando nell’ambito del cinema di genere e, come abbiamo visto, anche "Dual" a tutti gli effetti lo è, Stearns ne lascia le tracce in superficie e nel contempo procede a svuotarne l’interno con una scarnificazione di codici e cliché volta a favorire la natura archetipica della storia. Una procedura che riguarda innanzitutto la cornice interna dell’inquadratura, rarefatta sia in termini di presenza umana che di allestimento scenografico, quest’ultimo enigmatico e minimale come potrebbe essere lo sfondo di un quadro di De Chirico. In "Dual" la continua tensione tra realtà e astrazione esalta la trasfigurazione degli oggetti (l’immagine delle armi disposte sul tavolo non sarebbe altrettanto sinistra come invece accade nella scena in questione) quanto dei rapporti spaziali, con la fissità delle riprese e con il ricorso al campo lungo alternato a filmati più ravvicinati, in cui l’ambiente privato della sua continuità finisce per evocare la presenza di ciò che rimane fuori dal quadro, amplificando il vuoto esistenziale di cui sono prigionieri uomini e donne.
Una sottrazione presente anche nei toni del film, allorché le componenti epica e drammatica insite nello status dei personaggi, in Sarah ma anche nel suo alterego, devono coesistere anche nei momenti più dolorosi (si pensi al decorso della malattia di Sarah ma anche al gore presente nel film di serie B che la ragazza deve vedere per abituarsi a guardare in faccia la morte) con vampate di comicità e di grottesco in cui l’umorismo nero sottrae alla drammaturgia qualsiasi ipotesi di catarsi, trasformando "Dual" in un film di eroi al contrario: nonostante la temerarietà dell’impresa, essi sono destinati a rimanere privi dell’ammirazione dello spettatore.
Depauperata delle caratteristiche più palpitanti e spettacolari a favore di una messinscena brechtiana, con gli attori rigidi e impassibili di fronte all'avanzare del male, la fantascienza di "Dual" lascia il passo al nero di una favola filosofico esistenziale in cui l’osceno consiste nel constatare che vita e morte si assomigliano e che l’unico modo di sfuggirgli (alla morte, ma anche alla vita) è dato dalla temporanea ebrezza di uno scopo momentaneo: qui come in "L'arte della difesa personale", esso scaturisce dalla costanza dell’esercizio fisico, dalla messa in forma del corpo e di conseguenza dall’illusione di avere sotto controllo la propria vita.
Emblematico il finale, nell’accostamento di due piani sequenza, quello della macchina di Sarah ferma lungo la strada e l’altro, relativo alla macchia boschiva dove si è appena consumato un delitto. Opposte nell’ambientazione - la prima metropolitana, la seconda rurale - come pure nella condizione relativa ai personaggi (uno vivo, l’altro morto), in realtà sul piano visivo le due scene sono fatte apposta per ricomporre le differenti realtà. Entrambe infatti celano la vista dei corpi, entrambe sono dominate dall’assenza di vita, perché le macchine che sfilano accanto alla vettura della protagonista altro non fanno che aumentarne la condizione di stasi e dunque l’assenza di vita. Quest’ultima, pur viva ma celata all’osservazione dello spettatore, è come se non lo fosse, sepolta all’interno dell’abitacolo ripreso dall’alto con una panoramica che sembra fare della vettura una sorta di pietra tombale.
Se a prima vista la relazione tra le due immagini sembra suggellare un senso di equiparazione tra la vita e la morte, in realtà il pessimismo di Stearns (autore anche della sceneggiatura) va oltre. Non solo perché la pace del cimitero campestre è più armonica del fluire del traffico cittadino, in qualche modo turbato dalla presenza della vettura ferma al centro della carreggiata. Alla naturalità del bosco, ripreso frontalmente e ad altezza uomo, Stearns fa corrispondere la veduta aerea (l’occhio di Dio) del contesto urbano, a segnalare un quotidiano in cui a farla da padrone è la contiguità tra fisico e metafisico. In questa ottica è come se il regista ci dicesse che senza saperlo siamo morti prima di esserlo.
Una visione spietata e beffarda quella di Stearns ma a suo modo unica nel proporre con tale rigorosità l’abisso esistenziale in cui è precipitata la "specie" umana. Sotto il profilo filosofico ed emotivo "Dual" è quanto di più vicino al cinema del grande David Cronenberg.
cast:
Karen Gillan, Aaron Paul, Theo James
regia:
Riley Stearns
titolo originale:
Dual
distribuzione:
RLJE Films
durata:
95'
produzione:
XYZ Films IPR.VC Resolute Films and Entertainment
sceneggiatura:
Riley Stearns
fotografia:
Michael Ragen
scenografie:
Sattva-Hanna Toiviainen
montaggio:
Sarah Beth Shapiro
costumi:
Janne Karjalainen
musiche:
Emma Ruth Rundle