L’apertura de “L’arte della difesa personale”, scritto e diretto da Riley Stearns intercetta come meglio non si potrebbe l’anima della storia. In essa il protagonista Casey Davis (l’ineffabile Jesse Eisenberg) è “vittima” della mdp che ne legittima la condizione di loser senza arte ne parte. Succede infatti che l’obiettivo, in procinto di avvicinarsi al ragazzo seduto all’intero della tavola calda, interrompa il proprio movimento per concentrarsi sulla coppia di avventori che sta entrando nel locale. Quella che sembrerebbe una semplice distrazione diventa di colpo l’espressione di una precisa volontà quando lo sguardo del regista invece di tornare a interessarsi del nostro si preoccupa di metterlo ai margini del quadro rispetto alla centralità dei nuovi arrivati, nel frattempo impegnati a fare di Casey l’oggetto del loro scherno.
In effetti, partendo da una storia di ordinaria alienazione, con il protagonista deciso a superare i propri blocchi psicologici attraverso la frequentazione di un corso di difesa personale, il film finisce per concentrarsi sul rapporto tra Casey e il suo maestro/Sensei (Alessandro Nivola) e dunque sulla subordinazione del primo nei confronti del secondo. In questo senso sono le immagini di presentazione dei personaggi a venire in aiuto, anche in considerazione della disposizione di questi all’interno dello spazio: centrale dominante, in primo piano, quella Sensei, periferica, subalterna e distante dal punto macchina quella del suo sottoposto. Una gerarchia, questa, peraltro attestata dalla sequenza in cui Casey si ritrova nell’ufficio dell’insegnante per lasciare i suoi dati personali, con l’esasperazione delle prospettiva (data dall’utilizzo del grand’angolo, espediente utilizzato soprattutto nella prima parte del film, quello segnato dal disagio del protagonista), utile a enfatizzare una distanza spaziale, quella del ragazzo dal suo mentore, che diventa metafora di un gap psicologico e caratteriale.
Raccontato in questo modo “L’arte della difesa personale” farebbe pensare a un’opera di massima drammaticità, destinata a non lasciare alternativa alcuna a reazioni derivate da una visione pessimistica della vita. Non che in effetti non ce ne siano le premesse, perché il tratto distintivo della storia altro non fa - per la maggior parte del tempo - che infierire sul malcapitato personaggio, facendo del malessere da lui patito il propellente per ribadire la supremazia dei forti sui deboli. In realtà Stearns lavora sul ridicolo scaturito dalle tragedie esistenziali dei suoi personaggi e cosi facendo trasforma le disgrazie di Casey e degli altri allievi del corso in una serie di situazioni impregnate di macabro umorismo. Accade infatti che la negatività degli eventi abbia come contraltare una messinscena ai limiti del surreale, nella quale il pathos dei contenuti (comprensivi di morte e violenza) viene bilanciato dall’asetticità delle circostanze e degli ambienti. Spogliata della sua normale quotidianità, l’esistenza e i suoi personaggi cancellano ogni tipo di naturalezza a partire dalla fissità/rigidità di visi e posture, mentre la scenografia, ordinaria e geometrica, contribuisce a segnare lo scarto tra l’assoluto di regole e dogmi relativi alla religione del perfetto karateka e il prosaico minimalismo del contesto urbano.
Detto questo, la qualità di un film come “L’arte della difesa personale” si misura anche con altro: in particolare con la capacità del regista di operare sul sottotesto della storia nel momento in cui, raccontando una società omofobica e maschilista (Imogen Poots, la più brava dei corsisti è penalizzata da Sensei per una questione di genere),che si serve della paura e della divisione per soddisfare il suo bisogno di ordine e controllo, altro non fa che mettere alla berlina il credo di un’intera nazione. Ad avvalorare questa tesi non sfugga peraltro il dato relativo alla tipologia del consesso esaminato, il quale per caratteristiche iniziatiche e dottrinali e per attitudine cospirativa con cui si propone, assomiglia a una vera e propria setta (organizzazione già al centro dell’ottimo “Faults”, opera prima del regista americano), sul modello di quelle religiose alle quali appartenevano una fetta dei primi coloni giunti in America dal vecchio continente. Su una simile continuità si inserisce la strategia del regista atta a suscitare l’empatia del spettatore, per l’appunto messo nella scomoda condizione di chiedersi se il processo di presa di coscienza del protagonista funzionerà oppure no, ovvero Sensei è davvero quello che dice di essere e soprattutto Casey riuscirà davvero a emanciparsi dalle proprie paure.
Se Eisenberg nel ruolo del protagonista conferma la predilezione per ruoli da perdente, Alessandro Nivola dimostra ancora una volta l’ecletticità del suo talento, capace di spaziare tra luoghi, personaggi e toni sempre diversi. Pur con qualche forzatura dell’impianto narrativo nella parte finale, quella della resa dei conti tra Casey e Sensei, “L’arte della difesa personale” è un film di idee e contenuti superiore alla media e fa di Riley Stearns uno di quei registi da segnare nel taccuino.
cast:
Jesse Eisenberg, Imogen Poots, Alessandro Nivola
regia:
Riley Stearns
distribuzione:
Chili
durata:
104'
produzione:
End Cue
sceneggiatura:
Riley Stearns
fotografia:
Michael Ragen
scenografie:
Charlotte Royer
montaggio:
Sarah Beth Shapiro
costumi:
Jami Villers
musiche:
Heather McIntosh