L'obiettivo era quello di dipingere i tormenti di un giovane Sergej Donatovič Dovlatov, nato ai piedi degli Urali pochi giorni prima che cominciasse l'assedio di Leningrado, città da cui la sua famiglia fuggiva e che è protagonista del film tanto quanto il suo personaggio principale, giornalista e scrittore che nell'Unione Sovietica di Brežnev vide costantemente rifiutarsi la pubblicazione delle proprie opere (i "libri invisibili" del titolo italiano), per poi ricevere i meritati onori (postumi) dopo essere emigrato negli Stati Uniti, ove morirà neanche cinquantenne, facendo appena in tempo ad assistere alla caduta del muro di Berlino e all'inizio della dissoluzione dell'URSS, ma non alla propria consacrazione come scrittore di lingua russa tra i più importanti della seconda metà del Novecento.
Un obiettivo che si può dire centrato, quanto meno da un punto di vista narrativo e di aderenza al contesto storico, con la suggestiva ambientazione nella Leningrado dei primi anni Settanta e in particolare negli ambienti intellettuali della città baltica, frequentati da Dovlatov assieme al sodale e futuro premio Nobel per la letteratura Josif Aleksandrovič Brodskij.
Un Dovlatov trentenne (siamo nel 1971), con una travagliata vita sentimentale e con un lavoro da reporter insoddisfacente e frustrante: nell'attesa di una carriera da scrittore che fatica ad avviarsi, Dovlatov non può far altro che esprimere il suo spirito anticonformista scagliandosi sottilmente contro la tradizione letteraria russa, impersonata dai figuranti che assumono i ruoli dei grandi scrittori ottocenteschi (Puskin, Dostoevskij, Tolstoj, Gogol) nell'occasione delle riprese di un film celebrativo dei lavori di un cantiere navale. Un documentario che Dovlatov è stato chiamato a commentare, con quella che si rivelerà una sferzante (e in quanto tale invisa all'establishment) penna da reporter.
Se è degna di encomio la scelta di Aleksej German Jr. di rifiutare il biopic convenzionale, focalizzando l'intero film su una manciata di giorni della vita dell'ancora giovane scrittore e giornalista, ciò che lascia invece a desiderare in "Dovlatov – I libri invisibili" è l'aspetto tecnico-formale, a tratti convincente – come nei long-shot e piani sequenza che accompagnano le scene in interni, muovendosi tra le sale e le conversazioni e rivelando abilmente gli spazi –, altre volte decisamente meno, con sguardi in macchina apparentemente ingiustificati, scelte di messa in scena decisamente artificiose (l'ultima apparizione di Brodskij, ad esempio) e una scena finale posticcia e vagamente ruffiana (Dovlatov seduto sul tettuccio di un'auto nell'inverno di Leningrado).
Il regista si affida troppo spesso alla pacata e sommessa voce narrante del protagonista, monotona quanto la fotografia di Łukasz Żal, che per l'intero lungometraggio si ammanta di una luce grigiastra e polverosa che scende a illuminare le scenografie, i costumi, gli stessi volti perennemente bruni, dalle tinte legnose e color caffè. Una luce che varia poco o nulla pur al variare di momenti (giorno, notte) e luoghi (interni, esterni), e nonostante la ben precisa ambientazione temporale, in una settimana di novembre, a Leningrado, con le notti bianche di giugno che sono un ricordo lontano, giunti ormai alle porte del grande inverno russo. Tonalità che rispecchiano quelle già utilizzate dal regista nel precedente (e ben più convincente) "Under Electric Clouds", e che qui si sposano con le atmosfere della Russia brezneviana, certo, ma forse pure troppo, palesando uno scarso coraggio nel provare soluzioni differenti da quelle che ci si potrebbe aspettare da uno sceneggiato televisivo. E non stupisce, quindi, il fatto che il film sia stato prontamente (già nel 2018) acquistato da Netflix per la distribuzione in alcuni importanti mercati internazionali, tra cui gli Usa e il Regno Unito, ma non l'Italia, dove il film arriva nelle sale a oltre tre anni e mezzo dalla presentazione festivaliera.
E così l'accoglienza positiva raccolta dall'opera, dopo l'Orso d'argento per il miglior contributo artistico alla Berlinale 2018 (non a caso, però, nel ristretto ambito dei costumi e della scenografia, per un premio che generalmente omaggia i risultati ottenuti dai direttori della fotografia), sembra quasi più un riconoscimento doveroso alla figura di Dovlatov e al rigore della rappresentazione con cui si è scelto di omaggiarla, più che al film in sé. Ancor di più se l'opera sancisce l'inevitabile accostamento tra lo scrittore e il padre di Aleksej German jr., regista emarginato e censurato nella Russia sovietica. Ed è curioso come tutto ciò rispecchi, mutatis mutandis, quanto accaduto con il "Mank" di Fincher: un omaggio a uno scrittore, che cela un omaggio al proprio padre, con un risultato non del tutto convincente.
cast:
Milan Maric, Danila Kozlovskiy, Helena Sujecka, Artur Beschastnyy
regia:
Aleksej German jr.
titolo originale:
Dovlatov
distribuzione:
Satine Film
durata:
126'
produzione:
SAGa, Metrafilms, First Channel, Message Film, Art and Pop Corn, Eurimages
sceneggiatura:
Aleksej German jr., Yulia Tupikina
fotografia:
Lukasz Zal
scenografie:
Elena Okopnaya
montaggio:
Daria Gladysheva, Sergey Ivanov
costumi:
Elena Okopnaya