"Buck era capace di sopravvivere nell'ostile ambiente del Nord: mise in rilievo la sua capacità di adattamento alle mutevoli condizioni, la cui mancanza avrebbe significato morte pronta e terribile. Nello stesso tempo segnò la decadenza o addirittura lo sfacelo delle sue qualità morali, vano ingombro nella selvaggia lotta per l'esistenza"
(Jack London, Il richiamo della foresta)
Il nero. Poi le fauci di un molosso che squarciano lo schermo. "Dogman" irrompe, sfonda il silenzio della sala con un lamento assordante. Pochi secondi più tardi, lo stacco dal primissimo piano dell'animale per allargare l'inquadratura sul minuscolo corpo di un toelettatore che gli sta accanto. Il cane è incatenato ed è una furia, Marcello, per contro, cerca di ammansirlo con la sua innata tenerezza. Il contrasto tra i due si acuisce: la fanciullesca voce dell'uomo sbatte contro il digrignare dei denti, la bassa statura dell'uno contro la possente stazza dell'altro che si trova, tra l'altro, in una posizione più elevata e predisposta al comando, quasi come su un trono. Eppure in pochi secondi qualcosa sembra cambiare, l'animale lo ascolta, resta persuaso e, forse, sorpreso dalla profonda dolcezza dell'uomo.
Con un incipit impeccabile che compendia anche a livello allegorico l'intera enucleazione del canovaccio, l'ultimo film di Matteo Garrone è un ritorno verso territori già esplorati, un piccolo gioiello che rimarca definitivamente la pulsione del desiderio e del riscatto.
Siamo al confine tra il Lazio e la Campania. L'atmosfera è brutalmente spoglia e reiterata, trasuda solitudine e desolazione. La fotografia porta a saturazione una tavolozza cromatica imperniata sul giallo, come il più classico dei film di frontiera. La periferia, gli ambienti catturati dalla macchina da presa potrebbero essere quelli di cinquant'anni fa, come anche quelli di un futuro post-apocalittico. E invece il tempo della storia è tristemente fossilizzato ai giorni nostri. Un ambiente al limite del surreale, insomma, dove le diverse vite di Marcello e Simone si incontrano e si interscambiano. Il primo ama il proprio lavoro e la figlioletta Alida, ma è oscuramente tentato da una pericolosa attrazione per la criminalità. La sua minuta piazza di spaccio attira, tra gli altri, proprio Simoncino, un pazzo energumeno che terrorizza a suon di testate e cazzotti il quartiere (mostruosa, letteralmente, la sequenza all'interno della sala slot). Marcello, in una sorta di forte instabilità emotiva e di malato slancio criminale, non solo accondiscende alle angherie e alle riprovevoli azioni del malvivente, ma addirittura gli salva prima la vita e poi si sacrifica al carcere per lui.
Torna così il desiderio di Peppino Profeta di appagare i suoi impulsi erotici e criminali al fine di riscattare lo scherno della società per la sua sciagurata natura e il suo aspetto fisico. Ma quello era un sentimento cristallizzato, "imbalsamato" per l'appunto, mentre il riscatto di Marcello viaggia su un respiro ben più ampio e umano. Lui che cerca riparo dalla violenza del mondo nell'affetto incondizionato dei suoi cani o immerso tra i fondali del Golfo di Gaeta mano per mano con Alida. Nel silenzio, in un mondo perfetto che può durare solo pochi attimi. Torna l'ingenua illusione di Luciano, incarnata nel corpo di Marcello da una qualità morale che è costretto ad abbandonare per poter sopravvivere. Torna il desiderio malato di sottomettersi per amore o amicizia come Sonia che giunge all'anoressia pur di compiacere il desiderio psicopatico di Vittorio.
Film essenziale e semplice a detta dello stesso cineasta romano, così fiabesco (incredibile come il trait d'union abbracci persino "Il racconto dei racconti") e irreale che la sceneggiatura scritta assieme ai fidati Gaudioso e Chiti tende ad appianare la messa in scena al punto tale da creare volutamente dei cliché di contorno, come dimostra la schiera di amici di Marcello, ognuno dei quali presiede un determinato ambiente, filo diretto con altrettanti luoghi comuni: Franco e la sua compravendita d'oro, Francesco e la sua sala slot, Gianluca e la sua trattoria. Ogni vita un'attività, ogni attività un bersaglio su cui dare libero sfogo agli intenti criminali di Simone.
C'è un messaggio comune in ogni intervista rilasciata da Garrone a Cannes, quello coraggioso e umile di allontanare dalla visione chi vorrebbe assistere al resoconto filmato del raccapricciante fatto di cronaca del "canaro" (ormai noto proprio grazie a Garrone) di ormai trent'anni fa. "Dogman", così come "L'imbalsamatore", non hanno nulla a che vedere con la riproposizione degli eventi reali, seguono percorsi indipendenti, autoriali, profondamente intimi. Non è la storia del "canaro", ma quella di Marcello. Una storia di umanità e bestialità, di poderosa violenza psicologica prima ancora che fisica. Di carne, sentimenti puri e volti che segnano lo schermo. Un lavoro che ha richiesto a Garrone dodici anni di gestazione ed è stato partorito solamente dopo aver conosciuto (in una storia che anch'essa ha del fiabesco) Marcello Fonte, guardiano di un centro sociale che si è ritrovato nel giro di pochi mesi dapprima comparsa per sbaglio e in seguito assoluto protagonista.
"Dogman" è quindi l'ennesima, definitiva, prova di Garrone come maestro nel trasformare gli interpreti in assoluti fuoriclasse (si pensi a Michela Cescon o Aniello Arena) in un film che vive delle magistrali prove attoriali dell'intero cast artistico, dalla malvagia deformità di Edoardo Pesce al potenziale comico di Fonte che si atteggia in più di un'occasione a Buster Keaton, come conferma lo stesso regista.
La lotta per la sopravvivenza, però, non ammette compassione e tenerezza. Il mancato riscatto e la conseguente vendetta messa in atto da Marcello rappresentano dunque "la decadenza o addirittura lo sfacelo delle sue qualità morali" alla stessa stregua di quanto accade al cane Buck di London. Neanche dopo aver messo in atto quello che i suoi amici non avevano il coraggio di fare e aver trasportato sulle spalle il trofeo per le desolate lande della spiaggia tirrena (come un cane che porta compiaciuto la preda al proprio padrone), Marcello è frastornato dall'indifferenza altrui e da un silenzio assordante. Gli ultimi secondi del più bel film di Matteo Garrone rappresentano l'epitome di un'umanità confusa, rassegnata a convertirsi in una ferocia spietata, bestiale.
cast:
Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Nunzia Schiano, Adamo Dionisi
regia:
Matteo Garrone
distribuzione:
01 Distribution
durata:
107'
produzione:
Archimede, Rai Cinema, Le Pacte
sceneggiatura:
Ugo Chiti, Massimo Gaudioso, Matteo Garrone
fotografia:
Nicolaj Brüel
scenografie:
Dimitri Capuani
montaggio:
Marco Spoletini
costumi:
Massimo Cantini Parrini
musiche:
Michele Braga