Che
David Lynch sia sempre stata una persona riservata e un artista poco disposto a parlare del suo lavoro è un dato inconfutabile soprattutto per chi, nel corso delle (rare) interviste rilasciate dal cineasta americano, ha cercato di trovare una risposta ragionevole alle iperboli narrative e alle vertigini di senso provocate dalla visione delle sue opere. A tal proposito ne sanno qualcosa i critici presenti alla conferenza stampa organizzata a suo tempo dal festival di Venezia per l'anteprima di "Inland Empire" i quali, frastornati dalla continua metamorfosi dei personaggi e dalle digressioni spazio temporali che costituivano l'architettura narrativa dell'opera, ebbero come risposta alle loro domande affermazioni ancora più evasive delle premesse poste in essere dal lungometraggio in questione. Punto d'arrivo di un percorso cinematografico che negli anni ha permesso al regista di affrancarsi dalle categorie del cinema più tradizionale - diventando strumento di ricerca personale e insieme poliedrica espressione di un talento fuori da ogni canone - l'esempio fornito da "Inland Empire" non è citato a caso perché il film del 2006 riecheggia più di una volta dietro le immagini e nelle parole che fanno da corredo a "David Lynch: The Art Life", il documentario diretto a più mani da Jon Nguyen, Rick Barnes e Olivia Neergaard, registi danesi ai quali è stato permesso di affacciarsi nelle stanze in cui l'ispirazione lynchiana fa le prove di ciò che poi dovrà essere.
Filmato all'interno dello studio dove la creatività si manifesta attraverso liturgie di segno opposto e in cui un'alacre attività manuale si alterna a improvvise stasi meditative "David Lynch: The Art Life" riassume attraverso un album di ricordi, pensieri e prerogative personali quella che è stata e ancora è la filosofia artistica dell'autore dai primi anni passi all'esordio nella Settima arte, avvenuto nel 1979 con "Eraserhead - La mente che cancella". Diversamente da ciò che lo spettatore sarebbe portato a credere a fare le spese di questa "eccezionale" dissertazione intorno al mondo del regista americano è proprio il cinema che, se da una parte è impossibile estromettere dal computo finale per il collegamento tra gli elementi autobiografici contenuti nel documentario e l' immaginario cinematografico che nutre le storie del regista, dall'altra ne viene sostanzialmente escluso per il fatto che gli episodi e le situazioni prese in esame (ivi compreso il materiale visivo a corredo degli stessi) appartengono alla vicenda umana del protagonista: quella che si forma e prende coscienza del significato della cosiddetta "vita artistica" in cui arte e vita confluendo nella medesima pratica finiscono per esercitare una presa talmente forte da subordinare gli aspetti della vita psicologica e sociale a cominciare da quelli legati al rapporto con le persone a lui vicine, in molti casi determinanti nel favorire le aspirazioni del giovane virgulto: dalla famiglia, fautrice delle aspirazioni del giovane apprendista al genitore del suo migliore amico (il pittore Bushnell Keeler) che lo avvia all'esercizio della pittura perorandone la causa quando sembra che il padre del virgulto inizi a dubitare sulla liceità delle scelte operate dal proprio figlio. Perché la vita artistica, cosi come emerge dai ragionamenti di chi ne è artefice oltre alle ripetizioni di una gestualità rituale ("si beve caffè, si fumano sigarette e si dipinge") è intesa non come attività fine a se stessa ("sapevo che i miei quadri facevano schifo" dichiara Lynch senza falsa modestia) ma nella misura in cui permette al giovane apprendista di trovare il proprio posto nell'universo ("e l'unico modo per farlo era continuare a dipingere e a dipingere per arrivare a qualcosa").
Così facendo, nel susseguirsi di sensazioni e rimembranze opportunamente testimoniate dal repertorio offerto dalla cineteca personale del regista come pure dalla visione di alcuni dei suoi dipinti, qui utilizzati per amplificare i significati delle affermazioni pronunciate da Lynch, il racconto di questa singolare iniziazione da modo allo spettatore di rintracciare l'origine di alcuni degli stilemi rintracciabili nei lungometraggi del regista. Dalla compartimentazione dell'esistenza che il nostro utilizza quando si tratterà di dare a ciascuna parte della sua vita una forma adeguata alle circostanze ("parlavo e agivo in un modo con gli amici, in un modo diverso con la mia famiglia,") alla sensazione di minaccia connessa con la possibile entrata in campo di qualcosa o di qualcuno che non rientra nell'ordine stabilito dalle consuetudini, a cui si lega la tendenza di Lynch a proteggersi dalla realtà limitandola in senso spaziale (da cui l'abitudine a circoscrivere il proprio raggio d'azione riparandosi dentro le mura di casa) e facendola esistere come altrove immaginato dal regista, sogno a occhi aperti in cui le paure dell'inconscio prendono vita al solo scopo di essere esorcizzate. In questa direzione va letta la sequenza conclusiva relativa al backstage di "Eraserhead" (l'unica dedicata alla settima arte) nel cui set il regista si rinchiuse e visse in una sorta di eremitaggio ad alto tasso creativo: "Eraserhead è stata l'esperienza più bella e felice del cinema" dice il regista, e ancora "Mi piaceva che quello fosse il mio posto, il luogo dove potevo costruire tutto come volevo che fosse con pochissimi soldi. Ci voleva del tempo ed è stato bellissimo". Frasi e immagini di un "impero della mente" ante litteram su cui "David Lynch: The Art Life" prova a fare luce con risultati davvero ragguardevoli.
20/02/2017