Un biopic su Salvador Dalì senza alcuno spunto originale sembrerebbe quasi una contraddizione in termini.
Ancor di più se si considera che Mary Harron è abituata a raccontare personaggi sui generis, dalla Valerie Solanas di "Ho sparato a Andy Warhol" alla Bettie Page di "La scandalosa vita di Bettie Page", dalla Anna Nicole Smith di "Anna Nicole – Una vita da playmate", fino al Charles Manson di "Charlie Says".
Tuttavia - e pur nel contesto di una filmografia qualitativamente altalenante - in quei biopic non si era mai percepita una così evidente distanza tra contenuto e forma.
"Daliland" racconta un frammento breve ma importante della vita del maestro del surrealismo Salvador Dalì, allorquando, settantenne ma ancora sulla cresta dell’onda, viveva la sua senilità alla stregua di una rockstar, in quel di New York, nella prima metà degli anni Settanta. Il film è raccontato attraverso gli occhi del giovane James (Christopher Briney) assistente personale dell’artista per un breve ma intenso periodo in cui farà in tempo ad assaporare gioie e dolori, piaceri e dispiaceri della vita al fianco di un genio diventato icona pop.
Ma di geniale e originale nel film di Harron c’è davvero ben poco, risolvendosi in un appiattito e convenzionale sceneggiato.
"Daliland" è un poster a tinte sbiadite, più che un dipinto brulicante di colori.
"Daliland" ha ben poco di Dalì, almeno dal punto di vista formale.
Harron si adagia sul più che tradizionale palleggio tra campo e controcampo e sull’abusata (e fin troppo televisiva) alternanza tra narrazione nel presente diegetico e poco convinti (per non dire banali) flashback. Non azzarda un piano sequenza nemmeno quando questo sarebbe doveroso, telefonato e fin quasi scontato: l’ingresso di James nella Daliland, la dimora newyorkese del pittore e di sua moglie Gala, nel pieno di uno dei loro eccentrici party.
C’è giusto lo spazio per una manciata di soggettive dal punto di vista di Dalì quando questi viene preso a male parole e aggredito da Gala, che buca la quarta parete con la sua innata aggressività. Unica divagazione formale in un’opera che azzarda poco o nulla, tanto da rendere anomalo e palesemente fuori contesto ciò che avrebbe invece dovuto rappresentare la normalità.
Anche l’accompagnamento musicale lascia a desiderare, e la cosa sorprende non poco, visto che Harron, sotto quel profilo, aveva fatto un lavoro eccellente in "American Psycho", ancora oggi il film cui la regista è costantemente associata, nonostante siano passati oltre vent’anni e abbia girato, da allora, altri cinque lungometraggi.
Nel contesto di un irreversibile piattume formale, non resta dunque che concentrarsi sui contenuti, gli unici che lascino vivo l’interesse durante la visione. E così "Daliland" si rivela un’opera sulla senilità e sulle miserie dell’invecchiamento, con una Gala vorace e dominatrice, se non addirittura rapace nei confronti di più o meno accondiscendenti toy boy, fino alla miserabile infatuazione nei confronti di uno di essi. L’atteggiamento di Gala verso Dalì è esso stesso ambiguo, alternando gelosia distaccata e istinto pseudo-materno, rabbiosa possessività e consapevolezza di essere l’unica àncora di salvezza di un uomo frastornato dalle sue fragilità.
Un uomo che guarda alla morte secondo una prospettiva erotica. Un uomo che si paragona a Dio (o a un "quasi Dio") per poi ammettere che "è molto difficile essere Dalì". Un uomo, eppure, estremamente lucido nel distinguere il lavoro dal divertimento ("questo non è un party" dirà a James in un momento in cui questi – come lo spettatore, del resto – sarà portato a confondere le due sfere).
Un uomo analizzato attraverso lo sguardo adorante e ossequioso della sua cerchia più ristretta, rendendolo così concettualmente simile al protagonista del precedente film di Harron, quel Charles Manson che si attorniava di giovani donne cui inculcare la sua distorta e folle visione del mondo. Il Manson di "Charlie says" era però un palese bad influencer, subdolo e manipolatore. Dalì è invece istrione e anfitrione, una figura intrinsecamente carismatica per il suo eclettismo e la sua verve artistica e spirituale.
Per questi aspetti contenutistici "Daliland" e "Charlie says" sono quindi essenzialmente due film comparabili, due film sul carisma e sugli stuoli che tendono ad assembrarsi attorno a esso, con la differenza che in "Daliland" il carisma è raffigurato alla stregua di un Giano bifronte: Dalì e Gala sono due tessere complementari nel loro essere antitetici per indole e carattere, sono due rappresentazioni di due modi diversi di intendere il carisma.
Ben Kingsley fa davvero un lavoro straordinario, di comprensione del personaggio, prima che di mimesi. E lo stesso fa Barbara Sukowa con la sua Gala. Eppure, limitarsi ad acclamare la performance dei due, in un’opera che di fatto non riesce mai a emergere da un costante piano di mediocrità, sarebbe davvero ben poca cosa.
cast:
Ben Kingsley, Barbara Sukowa, Christopher Briney, Ezra Miller, Rupert Graves, Andreja Pejic
regia:
Mary Harron
titolo originale:
Dalíland
distribuzione:
Plaion Pictures
durata:
104'
produzione:
Magnolia Pictures, Pressman Film, David O. Sacks Productions, Zephyr Films, Popcorn Films, Serein Pr
sceneggiatura:
John C. Walsh
fotografia:
Marcel Zyskind
scenografie:
Isona Rigau, Tanya Bowd
montaggio:
Alex Mackie
costumi:
Hannah Edwards
musiche:
Edmund Butt