Le fasi del cinema di Amir Naderi sono contrassegnate dalla sua erranza che l'hanno portato da Teheran in giro per gli Stati Uniti, dove si è stabilito alla fine degli anni Ottanta. "Cut", ultima fatica datata 2011 e presentata alla Mostra del Cinema di Venezia, è stato girato in Giappone con cast e crew del luogo: la storia è invece impregnata di una cinefilia estrema e guerrigliera con caratteri universali, sebbene la scrittura e lo stile di Naderi siano perfettamente adattati ai crismi nipponici, non mostrando l'alienità dell'autore né, di contro, un facile scadimento nel cliché. Per una qualità così peculiare deve aver aiutato anche la collaborazione in fase di scrittura del regista Shinji Aoyama, dello sceneggiatore Yûichi Tazawa e la consulenza speciale di Kiyoshi Kurosawa, del cui cinema Naderi si è detto grande estimatore.
Shuji è un regista indipendente che da qualche anno non riesce a realizzare opere personali, pertanto, persegue l'idea di sensibilizzare i suoi concittadini al cinema migliore, di cui auspica un ritorno e per la cui causa prega anche sulle tombe di
Akira Kurosawa,
Kenji Mizoguchi e
Yasujiro Ozu. Passa le giornate facendo volantinaggio per strada, ammonendo con un megafono le persone che non hanno riguardo né interesse per la vera arte, rimpiangendo una storia del cinema dimenticata, composta da grandi e insostituibili maestri: infine, di sera, nel terrazzino del suo minuscolo loft, nell'attico di un palazzo, organizza un cineforum da lui stesso introdotto. Le scene con Shuji che fa propaganda cinefila e corre per le strade di Tokyo ci informano anche di un disagio sociale che proietta il fondale socio-politico verso una realtà repressiva, da stato di polizia, da cui il giovane regista è costretto a ripararsi. Il ritratto dell'outsider si incrocia presto con una sotto-trama yakuza che fornisce l'espediente per la svolta narrativa che accende "Cut": si scopre che il fratello del regista era affiliato a un clan e che, indebitatosi fino al collo per permettere all'artista di girare il suo film, era stato alla fine ucciso perché non aveva ripagato il suo boss. Adesso quella somma, più interessi, doveva essere raccolta da Shuji per aver salva la vita.
Naderi dipinge un quadro di oppressione e alienazione urbana che in un certo senso ricorda "Tokyo Fist" (1995), ma laddove il film di Shinya Tsukamoto si faceva ennesima variazione in chiave allegorica di un ritratto della società nipponica, l'autore iraniano mischia il gridato e autobiografico
j'accuse contro il cinema capitalista a una più sottile riflessione sui limiti intimi e psicologici di un uomo: Naderi, da sempre affascinato dalle ossessioni, segue un personaggio che con sublime masochismo inizia a farsi picchiare per guadagnare soldi. La metafora è palese: Shuji fa del suo corpo un investimento, una scommessa estrema; dandosi completamente ai suoi aguzzini, alza la posta in gioco per ottenere quella libertà economica che gli permetterebbe di girare un nuovo film. Inoltre vi è un altro piano eminentemente spirituale, sottolineato dall'austerità digitale della regia naderiana, dominata dal piano fisso e dai dettagli; il martirio a cui Shuji si presta, e al quale Hidetoshi Nishijima dà corpo con estremo realismo fisico e psichico, avviene nello squallido bagno dove era stato ucciso il fratello: alla fine di ogni giornata di immedesimazione e purificazione, lo stremato protagonista si ritira a casa dove proietta sul suo corpo tumefatto le immagini del cinema che ama, assorbendone la luce e i riflessi che leniscono le sue ferite, ricaricandolo per il massacro del giorno dopo.
Nel finale, Shuji decide di programmare un'ultima sfida nella quale dovrebbe sopportare 100 pugni e a ogni colpo associa un film, imprimendo virtualmente sulla sua pelle una mini-mappa della storia del cinema. Da questa sequenza estenuante passa la summa concettuale di "Cut", l'apoteosi di una mortificazione corporale che si rivela pratica cinefila trascendentale.
07/07/2014