Molti ritengono che in Occidente il cinema di Mizoguchi Kenji sia stato scoperto tardi; comunque è indubbio che il regista di "Sansho Dayu" abbia contribuito in maniera determinante all'affermazione del cinema giapponese sulla scena internazionale negli anni cinquanta. I suoi film venivano ospitati nei grandi festival, i critici più illustri si innamoravano delle sue opere e per fare capire di quanta stima godesse basti pensare che la redazione dei "Cahiers du Cinema", dovendo scegliere tra Mizoguchi e Kurosawa, non indugiò molto nel riservare la piazza d'onore al regista de "
I Sette Samurai".
Leone d'argento a Venezia 1953 e candidato agli Oscar per i migliori costumi, "I racconti della pallida luna d'agosto" (o "Racconti di pioggia e di luna" se dobbiamo tradurre alla lettera l'originale "Ugetsu Monogatari") è uno dei suoi film più universalmente noti e da molti è ritenuto anche il suo capolavoro. Certo è difficile esprimere un giudizio categorico su una filmografia che vanta novantaquattro titoli (la cui conoscenza però si concentra decisamente su quelli dell'ultimo periodo, appunto, degli anni cinquanta) e non si può certo fare finta di ignorare che un nutrito partito di cinefili preferisce, ad esempio, il precedente "Vita di O'Haru, donna galante" ("Saikaku ichidai onna"), che venne presentato e premiato sempre a Venezia nel 1952. Comunque "Ugetsu", realizzato lo stesso anno di "
Viaggio a Tokyo" di Ozu (un grande momento per il cinema nipponico, quello), resta una delle opere più rappresentative di questo titano del cinema asiatico.
Il Kaidan-eiga secondo il maestroKaidan (letteralmente "storia misteriosa") è il termine con cui in Giappone sono indicati i racconti di fantasmi, storie a base di spiriti e presenze arcane che da sempre fanno parte della cultura e del folklore nipponico. Il cinema del sol levante naturalmente ha sempre attinto a questo patrimonio letterario e il
kaidan-eiga (i film su storie di fantasmi) resta uno dei sottogeneri più caratteristici del fantastico giapponese e per molti studiosi è il progenitore del moderno
j-horror, dal quale in effetti riprende diverse caratteristiche.
Mizoguchi si misura con questo tipo di storia tanto amata dal pubblico ma com'è prevedibile piega il genere a suo piacimento, ricavandone un'opera totalmente in linea con la sua poetica autoriale.
Con il suo sceneggiatore di fiducia Yoda Yoshikata (cruciale il loro lungo sodalizio artistico) si rifà alla famosa raccolta di Ueda Akinari, scrittore settecentesco che si era ispirato alla novellistica tradizionale cinese e giapponese. Mizoguchi e Yoshikata scelgono due racconti, intitolati rispettivamente "la casa fra gli sterpi" e "la passione del serpente", nei quali si parla di mariti che se ne vanno di casa in cerca di fortuna, di donne demoni, di bonzi esorcisti e, naturalmente, di spettri. Sono in origine due storie autonome ma vengono fuse in sede di sceneggiatura.
Nel Giappone del XVI secolo due contadini, Genjuro e Tobei, decidono di lasciare il proprio villaggio in cerca di fortuna. Il primo spera di potersi arricchire grazie ai suoi lavori da vasaio, mentre il secondo sogna di diventare un samurai. I loro progetti vengono prima di tutto, anche delle loro famiglie, quindi Genjuro non ci pensa due volte a lasciare a casa la moglie Miyagi e il loro figlioletto; non diversamente si comporta Tobei con la sua consorte, Ohama. A "distrarre" ullteriormente Genjuro ci penserà la misteriosa e seducente Lady Wakasa, che però poi si scopre non essere quella che si credeva. I due uomini riusciranno a fare ritorno a casa e si renderanno anche conto di avere sbagliato, ma non tutto potrà essere come prima...
L'approccio alla fonte letteraria non è particolarmente fedele ma d'altronde Mizoguchi e Yoshikata non sono mai stati particolarmente fedeli alle opere dalle quali prendevano ispirazione, come giustamente ci ricorda Yomota Inuhiko in "Mizoguchi e l'immaginazione nei racconti premoderni" (contenuto in "Bellezza & Tristezza - il cinema di Mizoguchi Kenji", ed. Il Castoro). Del resto va detto che i due racconti alla base di "Ugetsu" sono così noti in tutto l'estremo oriente da vantare diversi adattamenti cinematografici, anche fuori dal Giappone. Alla prima delle due storie si è pure rifatto Masaki Kobayashi per uno degli episodi del suo "Kaidan", altra famosa incursione d'autore (premiata a Cannes) nell'amato genere.
Mizoguchi/Yoshikata tolgono gli elementi più smaccatamente spaventosi e le figure spettrali sono più perturbanti che non veramente minacciose. Persino la donna serpente della fantasia di Akinari è diventata una ragazza che torna dall'aldilà perché desidera sapere cosa voglia dire amare ed essere amata. Del resto Mizoguchi, anche nelle sue opere di ambientazione storica, ha sempre dimostrato una certa predilezione per il realismo, quindi non può stupire che la componente soprannaturale, seppur presente (ci mancherebbe!), sia tenuta sotto controllo.
Ad ogni modo prima di parlare di kaidan-eiga snaturato, bisogna ricordare che il film ha spinto molti critici a parlare di Maupassant, Hoffman e Potocki, segno che il potenziale delle storie non è stato compromesso dall'alleggerimento fatto dal regista.
Fantasmi d'amoreSe quella di Kurosawa è un'antropologia a carattere prevalentemente maschile (anche se nel cinema del Mikado non mancano memorabili "ritratti di signora"), Mizoguchi è un regista soprattutto di donne e "Ugetsu" non fa certo eccezione in questo, non me ne vogliano i fan di Masayuki Mori (indimenticabile interprete di opere capitali come "Rashomon", "Hikigumo" e "I cattivi dormono in pace") cui Mizoguchi affida il ruolo del vasaio ambizioso che si lascia tentare prima dall'avidità e poi da una sirena incredibile.
Kinuyo Tanaka e Machiko Kyo, le due attrici più care all'autore, nei panni della moglie rediviva Miyagi e della seducente Wakasa, sono le figure con le quali si declina la cifra fantastica del film e rubano senza troppa difficoltà la scena al protagonista maschile. Mizoguchi chiama le sue interpreti-feticcio ma non le fa mai apparire insieme. Questo non si spiega solo con ragioni di
divismo, ma anche col fatto che le due donne non si possono (devono?) incontrare perché incarnano due figure complementari, entrambe vittime della crudeltà e della violenza; strappate anzitempo alle loro gioie, ai loro affetti, alla loro giovinezza, decidono di tornare dal mondo dei morti per riprendere la loro vita. Anche se diverse, la moglie che vuole ricongiungersi ai suoi familiari e la ragazza che vuole amare/essere amata, sono due aspetti ben precisi dell'imago femminile. A loro si aggiunge la Ohama di Mitsuko Mito, la sposa che conosce il dramma dello stupro e la vergogna della prostituzione, ma che si salverà, ricongiungendosi al marito, diventato samurai, che la ritrova in una casa di piacere; anche lei in fondo è una rediviva come le due donne-fantasma, una vittima del caos e della guerra, aspetti della società che sono imputabili agli uomini. Magnifiche presenze (loro, sì) che con grazia toccano i cuori di Genjiuro e Tobei, che si rendono conto troppo tardi (o quasi) dei loro errori.
Delle tre forse a restare maggiormente impressa è la Wakasa di Machiko Kyo, lo spirito che irretisce Genjiuro che, d'altro canto, è già abbastanza accecato dai suoi sogni di ricchezza. Già
femme fatale in "Rashomon", Machiko Kyo ci regala un personaggio memorabile, distinguendosi per una recitazione stilizzata debitrice del teatro Nō, dove i gesti e la postura contano più dei (non tantissimi) dialoghi; vedasi ad esempio la danza di seduzione. Apparentemente una Maga Circe (o se preferite una Maga Alcina) dell'estremo oriente, Wakasa è una figura in effetti complessa, destinata a sparire con la rapidità con cui appare e la cui scomparsa è la condizione
sine qua non affinché il vasaio possa ritrovare la moglie, o meglio ciò che la moglie è diventata...
Bellezza & Tristezza