Anzitutto, in breve, la trama: un sacerdote dalle attitudini oltranziste viene arrestato per l’omicidio di una religiosa, su cui ha azzardato un violento esorcismo; una giornalista newyorkese dal radicato scetticismo indaga. Poi, il luogo: una Romania fremente di folclore e arcana primitività. In essa il film ci fa piombare a volo d’uccello sin dall’incipit, attraverso la contraffazione digitale di un vertiginoso piano sequenza, che sorvola i tetti di una periferia, scopre tra le brume della vallata un edificio di culto, si apre un varco tra gli infissi di una cappella, piomba, infine, col fiato ormai corto e un deciso scatto laterale in un corridoio umido e lercio, in cui un gruppo di religiosi avanza reggendo a spalla una donna smaniosa e berciante legata a una croce. Un inizio a effetto, dunque, che disegna in brevi tratti le coordinate di quel che da lì in avanti il film andrà squadernando: un sito rurale dalle remote tradizioni, una nebbia persistente – del luogo o dell’anima – sacerdoti inquieti e irsuti, fervore religioso e acquasanta. Esauriti il dove e il cosa (il quando è: ai giorni nostri, ma, salvo alcuni tocchi di modernità, il racconto si presta ad agevoli retrodatazioni), ciò che avanza, per tracciare la probabile direzione del film è lo sguardo del regista – il cui nome, sin dalla diffusione dei primi crediti, non aveva mancato di eccitare la nostra immaginazione. A Xavier Gens dobbiamo, infatti, quel grumo di assurda ferocia che è "Frontiers – Ai confini dell’inferno" (2007) e che, assieme alle coeve opere dei sodali Bustillo & Maury, Du Welz, Laugier, Aja, Valette, sancì i termini della renaissance dell’orrore, che, agli esordi del millennio, squassò d’un tratto l’impreparata cinematografia transalpina. Opere livide, brutali, ulcerose, ribollenti di istintiva ferocia e dal taglio prepotentemente politico. Legittimo, dunque, che ci si sia abbandonati all’illusione di un prodotto capace di rinvigorire il tema degli esorcismi, magari instillandovi una punta di inaudita cattiveria; legittimo, altresì, piombare nello sconforto alla constatazione di un esito povero, se non di turbamenti, quantomeno di fascino.
Si tratta, a ben vedere, di uno di quei casi in cui uno sguardo al trailer già consente di riassumere i demeriti di una operazione tanto dubbia: un’apertura suggestiva, in cui le improvvise grida di una donna fanno da contrappunto a un inquieto paesaggio; poi il tracollo, con l’avvicendarsi di estenuanti confronti sulla fede e gli attesi sobbalzi innescati da una rincorsa di violini strozzati. Il corollario dell’orrore esorcistico non ammette deviazioni: corpi fissi che scattano al tocco, versi rauchi e insolenti, occhi d’un nero come di pozzo. Aggiungiamo il profilarsi improvviso, magari oltre una porta semichiusa, di un volto cadaverico, o il riflesso di una maschera demoniaca nello specchietto di una vettura ed è quanto il film sembra disposto a offrirci.
Affrancandoci dalla cautela di chi sospetta senza prove, vogliamo senz’altro addebitare le ragioni di questo fallimento a Peter Safran, sciagurata mente produttiva, cui si deve il dilagare della tremenda equazione che uguaglia tensione e jump-scare, e già al timone de "L’evocazione – The Conjuring" (ove l’accorto mestiere di James Wan sorvegliava con maestria la messa in scena, limitando i danni di una scrittura sterile), "Annabelle" e "The Nun". Non soddisfatto di ottundere ripetutamente l’efficacia dei suoi progetti col gravame dei più telefonati momenti-spavento, Safran ha ben pensato di sigillare la convenzionalità del film assegnandolo alla penna dei fratelli Hayes, la cui infelice intuizione è di reiterare ad libitum lo schema investigativo de "L’evocazione", sino a incancrenire la narrazione in un vicolo cieco di asfissianti monotonie. Lo schema è immutabile, sino ai titoli di coda: un breve interludio informativo, seguito da una scena in cui la solitudine della protagonista è insidiata da un qualche demone che apre finestre, chiude porte, smorza candele e si concede, di quando in quando, una comparsata al grido di bubusettete. Dopodiché, come diceva il Mozart di Miloš Forman della bagatella di Salieri, si ripete.
Del mestiere di Gens – da sempre costretto a intervallare progetti personali e lavori a cottimo per lo studio system – non v’è, ahinoi, traccia, se non nei brevi confronti a due che spingono in macchina gli sguardi dei personaggi o nell’invenzione che lega orgasmo e possessione demoniaca per mezzo di un nugolo di ragni. Che dei due film realizzati dal regista nel 2017, a vedere la tardiva luce delle sale sia un lavoro alimentare quale "Crucifixion", anziché il ben più interessante e personale "Cold Skin" – relegato a una silenziosa uscita in home video – non è, purtroppo, un segnale incoraggiante.
cast:
Sophie Cookson, Corneliu Ulici, Ada Lupu, BrittanyAshworth , Catalin Babliuc, Matthew Zajac
regia:
Xavier Gens
titolo originale:
The Crucifixion
distribuzione:
Adler Entertainment
durata:
90'
produzione:
Lotus Entertainment, Motion Picture Capital, The Safran Company
sceneggiatura:
Chad Hayes, Carey W. Hayes
fotografia:
Daniel Aranyò
montaggio:
Adam Tortman
musiche:
David Julyan