Liquidiamo subito un primo livello di lettura che, già di per sé, lascia emergere la vittoria della scommessa da parte del giovane regista francese. La splendida mattanza messa in scena è vigorosa ed esplicita. Perpetrata da una perfetta macchina di distruzione quale si rivela essere Philippe Nahon, figura che guarda a Jason, Mike Myers e Leatherface. Il ritmo è serrato e il sangue non si risparmia. Ogni via di fuga sembra preclusa.
Nahon si lascia alle spalle una scia di sangue di entità sconvolgente. E quando, dopo gli omicidi nello sperduto casolare di campagna, la mdp si sofferma negli ambienti del macello (ricordando il finale halloweeniano di John Carpenter, in cui si concede un ultimo sguardo ai luoghi dov'è passato il "male") affiora in rilievo il crudo spessore della violenza cui abbiamo assistito, preparandoci a ciò che deve ancora accadere.
Oltre la superficie del massacro - bene di prima necessità di un film di genere - riscontriamo, tuttavia, la classe di chi non è "semplicemente" capace di tenere sotto controllo con sapiente efficacia una materia che conosce in maniera approfondita: Alexandre Aja, infatti, (ri)produce una realtà distorta e malata. Sin dall'inizio siamo informati che la sua telecamera è pronta a registrare una confessione malsana. Che Marie sia vittima o carnefice - al momento propendiamo facilmente per la prima ipotesi - poco importa: ciò che sappiamo è che deve aver affrontato un'esperienza a dir poco traumatizzante. E il successivo segmento onirico dei titoli di testa ratifica il concetto di alterazione e di disturbo mentale.
Anche se il "vero" inizio del racconto [che la mdp sta già registrando] lascia intuire allo spettatore più attento la sorpresa finale (il look mascolino di Marie e la sua esplicita passione per Aléx, una certa attitudine a bere alcolici e - soprattutto - la sua affermazione di essersi appena risvegliata da un incubo pauroso in cui correva tra i boschi per sfuggire a sé stessa) il fascino della vicenda risiede nella narrazione e non nello stupore dell'epilogo: del resto, non a caso, a svelare la sorpresa è proprio la registrazione di una telecamera all'interno della stazione di benzina.
E la narrazione ci pone di fronte al tema del doppio (inteso come malattia mentale) e dell'ossessione. Ci pone di fronte a una realtà disturbante e sconnessa (i ralenti e le immagini mosse che contraddistinguono Marie in alcuni momenti essenziali). Marie, in tutta la sua fisicità, è un corpo estraneo al racconto. E a sottolineare tale sensazione di dispersione e distanza provvedono i fruscii elettronici e distorti del commento sonoro di François Eudes e l'ottima "New Born" dei Muse. Infine, abbiamo specchi, porte e giochi d'ombre di hitchcockiana memoria in buona ed efficace quantità e una fotografia piuttosto tetra e sgranata.
Quella di Marie è una vera e propria ossessione nei confronti di Aléx (basta guardare alla prima e all'ultima scena della pellicola). Un oggetto del desiderio che non può ottenere e che conduce a un ribaltamento del mondo messo in scena. La bestia feroce che aggredisce per dar sfogo ai propri deviati impulsi sessuali frustrati, mescolati a un sentimento d'amore (anche familiare) che non può essere corrisposto, non è un mostro maschio, ma donna; Marie non è la vittima (almeno non "quel" tipo di vittima) che vediamo scappare tra i boschi nel sogno iniziale: quella vittima è Aléx, come abbiamo modo di scoprire nella capovolta realtà dell'epilogo.
cast:
Cécile de France, Maïwenn Le Besco, Philippe Nahon, Franck Khalfoun
regia:
Alexandre Aja
titolo originale:
Haute tension
durata:
91'
produzione:
Luc Besson, Robert Benmussa, Alexandre Arcady
sceneggiatura:
Alexandre Aja, Grégory Levasseur
fotografia:
Maxime Alexandre
scenografie:
Tony Egry
montaggio:
Baxter
musiche:
François Eudes