La Pixar ha sempre raccontato storie di personaggi speciali, diversi da tutti, eppure tanto universali da divenire parte della cultura di massa quanto Luke Skywalker o Indiana Jones. Che anche i protagonisti di "Coco" ambiscano a occupare una simile posizione? È possibile.
Messico, Dìa de Muertos. I calzolai Rivera sono una famiglia con il dente avvelenato nei confronti della musica: un loro antenato abbandonò moglie e figlia per inseguire le proprie velleità d'artista provocando un rancore tramandato di generazione in generazione. Miguel, il Rivera più giovane, vuole fare della vituperata arte la propria ragion di vita. Ma nemo profeta in patria est, e per inseguire le orme del leggendario Ernesto de la Cruz, mariachi consegnato al Mito popolare, non si può fare affidamento su una simile parentela. Un incidente scatenerà il viaggio nel regno dei morti in cui Miguel, scortato dallo scapestrato Hector e dal cane randagio Dante, cercherà la benedizione dello stimato musicista.
Diciannovesimo lungometraggio per la abat-jour più famosa del mondo e quinta regia per Lee Unkrich, sette anni dopo l'apoteosi di "Toy Story 3". "Coco" è il primo film Pixar a chiamare in causa direttamente il tema della morte e dell'aldilà: bastava a solleticare l'appetito dei fan dello studio, d'altronde la recente alternanza tra prodotti originali ("Inside Out") e sequel di cash cow da spremere fino all'ultimo centesimo ha reso i primi eventi ancor più esclusivi all'interno della stagione cinematografica. "Coco" non tradisce le attese in tal senso, pur macchiandosi di quei peccati veniali che a conti fatti ne precludono l'accesso al gotha dei capolavori Pixar.
La storia, molto ricca e ben inserita all'interno del panorama culturale messicano, si divincola tra tematiche familiari in tutti i sensi, parlando della morte con ironia e leggerezza. Le persone muoiono davvero quando dimenticate: il messaggio centrale, toccante nella sua natura pedagogica, non esaurisce però le potenzialità del film. Per buona parte della sua durata "Coco" parla di altro: le figure iconiche che ci hanno accompagnato nella crescita e il piedistallo da cui prima o poi sono stati rimossi, la notorietà e lo star system, con le loro luci (si parte dalle festicciole di paese per arrivare a un party esclusivo dove un dee-jay remixa battute storiche di de la Cruz in un pezzo disco) ma anche le loro inconfessabili ombre che fanno il verso agli scandali vip decretanti la fortuna della cronaca mondana. Tematiche ben sintetizzate alle quali aggiungere echi di attualità (i divertenti blocchi alla dogana di cui è vittima Hector come sagace fotografia di una politica - americana ed europea - che costruisce muri anziché distruggerli) che passeranno inosservati ai bambini, ma che è obbligatorio cogliere per i più grandi.
Visivamente si toccano le vette più alte dai tempi di "Wall-E", mostrando i muscoli alle rivali DreamWorks e Blue Sky ma anche alla gemella Disney. Il coloratissimo hereafter dei messicani è un mondo vasto e ricco di immaginazione, fotografato simulando con maestria movimenti di macchina sempre coerenti con l'emozione che la scena vuole trasmettere. Il risultato ci fa sentire minuscoli dinnanzi a un universo che si snoda in ogni direzione e che contempla lo spettro emotivo con sfumatura e tatto. Lungo il film incontriamo band metal, artisti di ogni genere e persino un malinconico cowboy al tramonto della propria esistenza. Le gag fisiche che coinvolgono teschi e scheletri ricordano, senza mai aderire a un'estetica horror, le migliori trovate di Sam Raimi o Tim Burton.
Solo gli ultimi venti minuti del film espongono il fianco a qualche critica. Meccanismi troppo comuni nel risolvere i vari snodi narrativi, visti in decine di film, denunciano piccoli inceppi, per non dire passaggi che funzionano poco o per nulla, impedendo al film di operare il salto di qualità decisivo. Prima del lieto fine, infatti, sembra che non si riesca a tirare le somme con la consueta genialità, prolungando alcuni momenti oltre il necessario e tranciandone altri. Forse un finale più sfrontato e sintetico (da "Ratatouille" a "Toy Story 3" ne abbiamo visti di epiloghi brevi e molto intensi) avrebbe eliminato buonismi francamente superflui rendendo meno compiacente e più emozionante l'ultima pagina della storia. La concorrenza può comunque fermarsi a prendere appunti anche questa volta.
cast:
Gael García Bernal, Anthony Gonzalez, Benjamin Bratt
regia:
Lee Unkrich, Adrian Molina
titolo originale:
Coco
distribuzione:
Walt Disney Studios Motion Pictures
durata:
109'
produzione:
Pixar Animation Studios
sceneggiatura:
Adrian Molina
musiche:
Michael Giacchino