Da sempre la volontà di un regista di cimentarsi con qualcosa di lontano o nuovo dal proprio modo di intendere solitamente il cinema è un elemento che ben dispone alla visione di un film. Non può dunque che suscitare curiosità e interesse la decisione di Andrew Haigh di virare completamente la sua opera verso territori totalmente inesplorati fino a questo momento nella sua filmografia. La sua scelta di scrivere un adattamento di un romanzo profondamente americano si accompagna alla volontà di esplorare nuovi orizzonti dell'animo umano, piuttosto distanti da ciò che finora era stato messo in scena nei precedenti tre lungometraggi realizzati in Europa. Anzi, "Charley Thompson" non è solo e semplicemente un film inglese girato negli Stati Uniti, ma è anche un'opera radicalmente ancorata nell'intenso sentire americano, che vuole stupirsi e stupire lo spettatore per la magnificenza di un Paese sterminato e, anche per questo, sicuramente contraddittorio.
A metà tra il racconto classico di formazione e un genere avventuroso che esalta gli eccezionali paesaggi e la wilderness tipica degli Stati dell'interno, la pellicola di Haigh è un complesso insieme di tanti piccoli film, un progetto tanto ambizioso quanto confuso, tanto generoso quanto solo parzialmente riuscito. Nelle oltre due ore, Haigh si concentra su diversi focus. Il primo, quello che gli riesce meglio, è il momento della presentazione del suo protagonista, un adolescente giunto a Portland insieme al padre. I due si arrangiano come possono nell'estate dell'Oregon, nella dimenticata periferia della grande città, non troppo lontano dal mare (che però non vediamo mai), ma anche a due passi dalle grandi praterie e dalle enormi distese rocciose che caratterizzano gran parte del territorio statunitense. In questa prima parte, Haigh si prende il tempo necessario per piegare le nuove ambientazioni al suo cinema e alla sua arte. Molti primi piani, una fotografia che strizza l'occhio al più tradizionale cinema indie made in Usa, colonna sonora minimalista e poche parole. Conforme a una poetica che l'autore britannico porta avanti con decisione, anche stavolta i personaggi e la loro difficoltà di vivere al passo con il mondo circostante non hanno bisogno di tante frasi o dialoghi per raccontarci di loro e della loro condizione.
La seconda parte è quella più ambiziosa, quella in cui Haigh concentra le sue pulsioni innovatrici, da coraggioso regista qual è. Ed ecco che, una volta trovato un lavoro stagionale in un ippodromo e fatta amicizia con un cavallo poco valorizzato e destinato a una brutta fine in Messico, Charley parte per un viaggio in solitario verso il Wyoming, con l'obiettivo di ricongiungersi con una vecchia zia che, quando era un bambino, gli aveva fatto da madre. E qui, nella parte centrale del film, Haigh omaggia tutto il grande cinema avventuroso di Hollywood, ma anche quelle recenti opere che facevano della fuga dalla modernità alla ricerca delle primordiali radici selvagge dell'America più profonda un'occasione per mettere in discussione l'essenza stessa delle tarsformazioni perennemente in atto negli Stati Uniti. Da "Into the Wild" di Sean Penn a "Wild" di Jean-Marc Vallée, Haigh ripercorre tutto il recente cinema dei grandi spazi, in questa traversata a piedi del deserto.
La terza parte del film, invece, è quella realmente incompiuta. Arrivato a destinazione e senza un soldo, Charley vive sul crinale del degrado fisico e morale per un po' di tempo, trovandosi addirittura in contiguità con la piccola delinquenza che, universalmente, si annida nelle periferie e nei sobboghi più disagiati delle metropoli occidentali. Un percorso di caduta agli inferi difficile da comprendere, onestamente.
Non abbiamo raccontato molte svolte narrative che portano le diverse parti del film a introdursi in quelle successive, proprio per non svilire troppo la visione. Ma anche perché, le suddette svolte sono praticamente tutto. Haigh, ammaliato dalla bellezza e dalla maestosità di ciò che lo circonda, ha infatti scritto una sceneggiatura fin troppo basica. A ogni azione, a ogni evento, anche il più drammatico e violento, segue una reazione conseguente naturale e prevedibile. Nel percorso di crescita di Charley manca la capacità di una visione a più dimensioni cui il cineasta inglese ci aveva abituato. E così, la pellicola scorre via senza particolari guizzi, con un ritmo placido che quasi stride con il dramma umano che vive in prima persona il protagonista. Lo stesso Lean on Pete, ovvero il cavallo protagonista di un viscerale rapporto di amicizia uomo-animale con Charley, ha un peso che si rivela meno decisivo del previsto: più che causa o effetto delle vicende, alla fine si limita ad essere un incidente incastonato tra l'una e l'altro.
Haigh non è mai stato un regista dalla messa in scena aggressiva, né tantomeno dalla scrittura ampollosa. Il buono che sa trasmetterci è proprio in questa sua abilità nell'incontro con qualcosa di leggendario, senza farsi inquinare da qualcosa che non gli appartiene. E questo è sicuramente un elemento che gioca a favore della riuscita della pellicola. Ci sarebbe piaciuto un coraggio di osare ancora maggiore, una capacità di affrontare il tema del viaggio, della crescita e anche del confronto con la grandezza del mondo avverso con più personalità. In troppe sequenze, invece, emerge un timore reverenziale verso una tradizione che, però, guardava ad altri ambiti mentre metteva in scena l'incontro-scontro con la natura selvaggia. Un esempio: gli incontri sulla strada di Charley sono troppo episodici, non restano attaccati allorché l'alba successiva riporta in cammino il ragazzo.
E così come rischiano di essere troppo velocemente dimenticati i personaggi della storia raccontata da Haigh, altrettanto corre il pericolo di essere confuso nei ricordi il film stesso, a visione terminata. Ma siamo sicuri che la marcia di avvicinamento di Haigh l'inglese verso il Grande Cinema può proseguire anche dopo averci raccontato di Charley Thompson.
cast:
Charlie Plummer, Steve Buscemi, Chloë Sevigny, Travis Fimmel, Steve Zahn
regia:
Andrew Haigh
titolo originale:
Lean on Pete
distribuzione:
Teodora Film
durata:
121'
produzione:
BFI Film Fund, The Bureau, Film4
sceneggiatura:
Andrew Haigh
fotografia:
Magnus Nordenhof Jønck
scenografie:
Ryan Warren Smith
montaggio:
Jonathan Alberts
costumi:
Julie Carnahan
musiche:
James Edward Barker