Alza subito il tiro, John Michael McDonagh, audacemente. Per la seconda volta dietro la macchina da presa, forte dei consensi raccolti con "The Guard", commedia tanto ruvida quanto brillante (e furbescamente dileggiata dai nostri titolisti con un nome del calibro di "
Un poliziotto da happy hour", nel rispetto delle migliori tradizioni), l'irlandese vuole mettersi alla prova e, per farlo, sceglie un soggetto dall'articolazione ben più complessa e insidiosa, ribadendo contemporaneamente lo sguardo e l'approccio registico che avevano contraddistinto l'opera d'esordio.
L'avvio non conosce cautele introduttive, brusco e spiazzante come pochi. Durante il turno di confessioni domenicali, un fedele racconta a padre James la propria infanzia devastata dai ripetuti abusi sessuali di un sacerdote, adesso defunto. Poi, con la stessa rabbiosa lucidità, gli comunica il proprio insensato disegno di vendetta: ucciderà il suo confessore tra sette giorni esatti, sulla spiaggia, perché ammazzare un prete mite e innocente di domenica è il solo sacrificio possibile, l'unica gratuita efferatezza che potrebbe risarcirlo delle sofferenze subite. Certamente turbato, padre James, che nell'uomo ha riconosciuto un suo parrocchiano, non si scompone e stoicamente intraprende un illogico cammino attraverso l'afflizione e il martirio, fino alla morte. Un'estenuante via crucis lungo la quale il sacerdote verrà sottoposto, stazione dopo stazione, all'insofferenza, al ludibrio e alle angherie della propria piccola comunità di dannati, uomini e donne non soltanto sprovvisti di qualsiasi devozione, ma anzitutto svuotati di ogni minimo avanzo di umanità e misericordia.
McDonagh predilige uno sviluppo sincronico, elementare, che procede per semplice apposizione di sequenze dialogiche e, in tal modo, consegue un duplice effetto. In primo luogo, mettendo in fila tutti i possibili esecutori del delitto preannunciato e snocciolandone mano a mano disgrazie e depravazioni, lascia emergere un'eccentrica orditura da giallo deduttivo, spruzzata di humor nerissimo e, in alcuni tratti, davvero disturbante. Inoltre, cosa più importante, questa struttura piana gli permette di sviscerare progressivamente la dialettica complessa e unilaterale che si genera tra la sofferta morale del protagonista e la condotta a-morale dei poveri diavoli che lo circondano, finendo paradossalmente con l'avvicinarli. Un allestimento narrativo d'impronta teatrale, quello prescelto, che sembra celare reminiscenze
bergmaniane, tanto che, in certi frangenti, lo si potrebbe interpretare come un corrispettivo acido e squilibrato di "Luci d'inverno".
Del resto, il taciturno padre James che ha indossato gli abiti talari in seguito alla prematura perdita della moglie e che ha colpevolmente trascurato una figlia con inclinazioni suicide, è un personaggio quasi
kierkegaardiano: un singolo che, dopo aver esperito il dolore in altre vite, ha imboccato
in extremis il cammino religioso, rintracciandovi un preordinato modello di necessità, in risposta alle angosce derivanti dalle scelte e dalle possibilità, cardini della sua vita precedente. Non c'è quindi nulla di sereno e confortante nella cristianità di padre James che, anzi, ne incarna il carattere "assurdo" e "disumano" ripercorrendo deliberatamente il martirio cristologico come finale "comunicazione d'esistenza".
Allo stesso modo, gli abitanti di questo lembo di un'Irlanda sempre più secolarizzata e dimenticata da Dio non trovano altre risposte alla mancanza di senso e alle proprie ferite interiori se non la perversione, l'infamia, la violenza. Anche nel loro caso, il peccato diventa un'ultima, malata forma attiva di comunicazione esistenziale e, in quest'ottica, viene non solo raccontato, ma ostentato con soddisfazione, senza mostrare barlumi di rimorso neppure di fronte alle crudeltà più spaventose. E l'inutile immolazione del sacerdote ovviamente non li redimerà.
Imbevuto del più tetro pessimismo antropologico, l'affresco esistenziale di McDonagh, pur sorprendendo, funziona solo in parte. Energico in diversi segmenti come gli struggenti colloqui tra padre e figlia o l'agghiacciante conversazione del protagonista con un assassino violentatore tra le mura di un carcere, in molti altri frangenti rischia di cadere nel programmatico, smarrendo l'ambizioso disegno di partenza. Aiutato anche questa volta dall'abbagliante fotografia di Larry Smith, il regista rinsalda i suoi stilemi come alcuni improvvisi inserti dal sapore western o la volontà di instaurare una relazione simbiotica tra paesaggio e personaggi (caratteristica, questa, che lo avvicina al fratello Martin). Eppure spesso manca la giusta tensione tra forma e contenuto e, probabilmente, una sintassi più studiata, rigorosa e "purista" avrebbe contribuito a irrobustire il senso dell'opera e a veicolarne la carica suggestiva. A rimanere nel cuore e nello sguardo, più di ogni altra cosa, è un magnifico Brendan Gleeson che, con l'espressione lucida e rassegnata e la sua mole maestosa, diventa il perno, robusto e insuperabile, dell'intera pellicola.