Non si può dire che l'attesa per questo nuovo, solitario lavoro di Allen Hughes (sciolto - momentaneamente? - il sodalizio col fratello Albert) fosse spasmodica, eppure si era creato un certo interesse attorno a "Broken City", se non altro per la curiosità di capire quale sarebbe stato il prossimo tassello di una carriera a tal punto peculiare, variegata e ampiamente dispersiva, di un percorso registico capace, nell'arco di due decadi, di affiancare con sospetta naturalezza la denuncia - non esente da retorica - del microcosmo di violenza che intrappola le vite di giovani afroamericani nelle periferie metropolitane ("Nella giungla di cemento"), la delirante estetica da videoclip dell'adattamento di una celebre graphic novel ("From Hell", divenuto, nell'ingenuità dei distributori nostrani, "La vera storia di Jack lo Squartatore"), un'inchiesta documentaristica sul fenomeno della prostituzione ("American Pimp") e, infine, un action apocalittico dalle tendenze messianiche ("Codice Genesi").
Dal canto suo, questo "Broken City" conferma i sospetti che gravavano sui precedenti lavori del regista e corrobora l'impressione di una tendenza a cercare tra le forzature della regia un attestato di autorialità da esibire al petto come una medaglia al merito. E' vero che il consueto corredo di carrellate, piani sequenza e panoramiche è qui più contenuto, ma la vocazione a gravare l'immagine di un surplus tecnico fatto di ralenti e fuori fuoco continua a testimoniare la poca fiducia di Hughes nelle proprie capacità di narratore. E, alla prova dei fatti, non ce la sentiamo di dargli torto.
Per quasi due ore la storia dell'ex poliziotto Billy Taggart, dal controverso passato, si trascina, affannosa e parca di vero interesse, tra le macerie di una New York torbida e indifferente, in cui proliferano i segni di una corruzione dilagante. Ridotto a spiare le altrui infedeltà per conto di coniugi sospettosi, Taggart accetta di pedinare la fedifraga moglie del sindaco Hostetler, impaurito dalle ripercussioni che un eventuale adulterio potrebbe avere sull'imminente campagna elettorale. Naturalmente la trama inestricabile di inganni, complicità e cospirazioni si rivelerà ben più complessa del previsto, al punto da costringere Taggart a riallacciare i nodi di un passato burrascoso, che credeva finalmente rimosso.
Tra confusi accenni alla tematica razziale, momenti di sofferta (?) introspezione e stralci di fulminea violenza urbana (che sembrano voler funzionare come nostalgici revival, citazioni tematiche dei primi passi mossi dai due fratelli nella settima arte, più che come spunti sociologici - e lo Spike Lee de "La 25a ora" c'entra ben poco) il faticoso ritmo narrativo patisce, nella parte centrale, una deriva risollevata unicamente dalle prove dei due protagonisti: il cattolico Wahlberg, detective turbolento e dedito all'alcool, in parte quanto basta da far sfumare i sospetti di inespressività nel fascino di uno sguardo perennemente assorto e pensieroso e il reazionario Crowe, che, senza patire gli stereotipi del politico borioso e avido di potere, disegna un'interpretazione misurata e convincente, donando una sottile inquietudine al suo canagliesco personaggio.
Non basta, però, la bravura degli interpreti a salvare la disperata orizzontalità di una scrittura unilaterale, confusa al punto da dimenticarsi dei suoi personaggi in corso d'opera, votata all'accumulo ed incapace di indagare le ragioni dei protagonisti. Ben altre inquietudini muovevano quel carosello di macchinazioni che è "L'uomo nell'ombra", con il quale Polanski (memore della raffinata maniera noir già affrontata nel bellissimo "Chinatown") ha saputo imbastire un gioco coinvolgente, ambiguo (davvero, stavolta) e malsano di identità incerte e situazioni stranianti, in cui la chiave di lettura della realtà contemporanea non si risolve nel complesso meccanismo di insondabili intrighi politici, ma si estende alla dimensione di una morale confusa e sfuggente, in cui l'omertà e la reticenza vengono elette a regole del vivere comune.
E se, infine, al di là di tutte queste considerazioni, provassimo a scindere l'opera dall'autore? A vedere questo film come un generico poliziesco dalle tinte fosche, anziché come l'ennesima prova di una vacua, quanto inesausta, ricerca autoriale? Rimarrebbero le spoglie di un racconto stiracchiato e piuttosto povero di suspense, con l'unica compagnia di due ottimi protagonisti a trattenere lo spettatore dallo sbirciare di continuo le lancette dell'orologio.
cast:
Mark Wahlberg, Russel Crowe, Catherine Zeta-Jones, Jeffrey Wright, Barry Pepper, Kyle Chandler, Natalie Martinez, Alona Tal, Michael Beach, James Ransone, Griffin Dunne, Britney Theriot, Luis Tolentino, Tony Bentley
regia:
Allen Hughes
distribuzione:
20th Century Fox
durata:
109'
produzione:
Emmet/Furla Films, Black Bear Pictures, 1984 Private Defense Contractors, New Regency Pictures, Envi
sceneggiatura:
Brian Tucker
fotografia:
Ben Seresin
scenografie:
Tom Duffield
montaggio:
Cindy Mollo
costumi:
Betsy Heimann
musiche:
Atticus Ross, Leopold Ross, Claudia Sarne
Billy Taggart è un ex poliziotto, ridotto, per necessità, a fare l’investigatore privato. Ha una fedele segretaria, una compagna con velleità artistiche e un torbido passato alle spalle, ma crede di aver finalmente raggiunto un equilibrio nella sua vita. Finché non riceve una chiamata dal sindaco di New York Hostetler, che lo incarica, dietro lauto compenso, di pedinare la moglie, sospetta fedifraga. Billy accetta, ma sarà l’inizio di una spirale di inganni e mistificazioni, che lo porteranno a fare i conti con la corruzione e i ricatti del Potere, ma anche con i resti di un passato, che credeva definitivamente sepolto.