Da sette anni Davide Ferrario non si cimentava in un lungometraggio di finzione. Nel mezzo ci sono stati diversi documentari (alcuni davvero notevoli), tutte tessere di un unico puzzle, un organico ragionamento sulla fragilità dell'uomo contemporaneo. Il suo percorso nella fiction si era interrotto con "La luna su Torino" nel 2014, ma, in realtà, tutto il lavoro cinematografico del regista cremonese ha una sua logica unitaria. Orbitando soprattutto sul capoluogo piemontese, città designata in questa fase della sua carriera come teatro all'aperto ideale per mettere in scena storie più o meno fittizie, Ferrario insiste sull'idea di un essere umano disorientato di fronte alla modernità. Nel suo cinema, lieve ma raffinato, c'è sempre una costante: i protagonisti smarriscono la strada a causa dei cambiamenti sociali, economici e culturali che sopraggiungono. Ed è così anche in questo suo ritorno al cinema. "Boys", però, è l'opera sicuramente più convenzionale e prevedibile che l'arte di Ferrario abbia prodotto nell'ultimo decennio.
Scritto a quattro mani insieme a Cristiana Mainardi, è la storia di quattro amici che hanno avuto, con la loro band, degli attimi di successo vero negli anni 70. Poi il gruppo non si è sciolto, anzi loro hanno continuato a suonare con una certa costanza; semplicemente, il pubblico li ha dimenticati, sono arrivati gli 80 e le tendenze sono mutate e quella musica ha smesso di essere ascoltata. Qui c'è già un elemento di originalità e di riflessione non banale: Ferrario non costruisce l'ennesima vicenda malinconica che prende spunto da una reunion, da un incontro di persone che si sono perse di vista. In "Boys" i quattro personaggi principali hanno continuato a vedersi e sentirsi negli anni; l'effetto-malinconia qui non è nell'abusata trovata del nuovo incontro, bensì nel mero ricordo. Le vite si sono trasformate, si sono normalizzate, ma la memoria corre al passato, a un tempo diverso in cui questi quattro uomini avevano creduto di aver trovato un posto nel mondo, una sensazione, però, sfumata molto presto.
Si torna allora, ancora una volta, a un elemento ricorrente del cinema di Ferrario, il passato come valore, o come rifugio, se preferite. Di nuovo, infatti, è il presente che ha messo ai margini questi musicisti di provincia e loro, prendendone atto, hanno vissuto la seconda parte della loro vita nel ruolo di comprimari, dopo una prima parte che lasciava presagire orizzonti ben diversi. È uno spunto degno di nota, quello che si trova fra le pieghe della sceneggiatura di "Boys". Ma è anche un'intuizione che non riceve una vera realizzazione nella pratica, nonostante la professionalità e l'impegno dell'autore. I tempi di "Dopo mezzanotte" sono lontani e le parole del copione restano fredde e aride nella messa in scena. Il film, purtroppo, si regge su basi narrative molto esili e la commedia musicale dal sapore agrodolce risulta canonica all'inverosimile. Nonostante la bella idea, Ferrario stavolta si perde in un difetto fortemente caratterizzante gran parte del cinema brillante italiano dell'ultimo decennio: la struttura del film poggia sulla coazione a ripetere, le scene diventano sketch che si susseguono, i protagonisti non hanno una vera e propria evoluzione e diventano ben presto dei bozzetti chiamati, ognuno in modo diverso, a svolgere una funzione meccanica che ha l'obiettivo di portare la sequenza alla conclusione attesa. Anche le scelte di casting, probabilmente, non hanno pagato e l'implausibilità di una band con dentro Giovanni Storti insieme a Marco Paolini e Giorgio Tirabassi insieme a Neri Marcoré risulta palese agli occhi dello spettatore.
Ferrario, a differenza di altri colleghi che non hanno nulla da dire di nuovo, ha argomenti con cui arricchire il suo lavoro anche in occasione di un passo falso come questo. E lo si vede soprattutto nella prima metà del film, allorché la macchina da presa passa in rassegna le esistenze di questi sessantenni alle prese con la disillusione di un presente che ha tradito le promesse. È nei meccanismi della pellicola di genere che il racconto si ingolfa in modo preoccupante, nella seconda parte. Quando, espediente per espediente, il film si trova a raccontare questo inatteso ritorno sulla scena della vecchia formazione. Ecco, lì, le necessità commerciali prendono il sopravvento e Ferrario, forse, si è annoiato nel riproporre schemi abusati. Lì, probabilmente, ha rimpianto le possibilità di un documentario, in cui non si può bluffare davanti al reale.
cast:
Neri Marcoré, Marco Paolini, Giovanni Storti, Giorgio Tirabassi, Paolo Giangrasso
regia:
Davide Ferrario
distribuzione:
Adler Entertainment
durata:
97'
produzione:
Lumière & Co. con Rai Cinema
sceneggiatura:
Davide Ferrario, Cristiana Mainardi
fotografia:
Emanuele Pasquet
montaggio:
Claudio Cormio, Cristina Sardo
musiche:
Mauro Pagani