Il ritorno di Borat non può certo essere motivato dalle stesse ragioni del prequel, né dal rinvenimento dello sgangherato filone narrativo o tantomeno dalla mera nostalgia di Baron Cohen per uno dei suoi personaggi più riusciti. Infatti, a dispetto delle apparenze i due "Borat" sono diversi nei toni, benché sfruttino come motore comico lo stesso meccanismo.
Dopo quattordici anni di lavori forzati, a Borat viene concessa una possibilità di redenzione: dovrà consegnare un dono prezioso a un alto esponente del governo americano. Partito insieme a Johnny the Monkey, ministro della cultura, si ritrova invece in USA con la figlia Tutar. Decide quindi di offrire lei come dono, ma un percorso formativo conduce entrambi al mutuo riconoscimento del genere opposto e della propria identità di genere; Tutar scopre di non avere una vagina dentata, mentre Borat si offre di sedurre Rudy Giuliani pur di salvare la figlia.
La società americana, al contrario, è raccontata in un percorso de-formativo. La camera (non) nascosta registra ancora l’azione come una parete di vetro in cui si specchia il profilo grottesco dell’America trumpista. A proposito di grottesco, non mancano le scene esilaranti come la visita al consultorio cattolico o il ballo delle debuttanti in Georgia, ma la figura dietro lo specchio cambia: il primo Borat era un trickster, una figura liminale che interroga gli aspetti familiari della società presentandosi con la maschera dell’assurdo al fine di smascherare l’assurdità di ciò che si presenta come familiare. La satira abrasiva di Baron Cohen graffiava il conservatorismo ottuso e il progressismo ipocrita, il femminismo e le teorie del complotto, il nazionalismo e la chiesa pentecostale.
Invece, questo Borat II (a.k.a. Philip Drummond III, omaggio a Conrad Bain) trova un bersaglio specifico nel trumpismo, bacino politico in cui si sedimentano i voti di neo-nazisti, complottisti, creazionisti, negazionisti, antiabortisti e antivaccinisti. Meno incline al vagabondaggio e all’improvvisazione, Borat II danza tra le linee di un canovaccio satirico cucito sulle misure della silent majority che ha eletto e sostenuto Trump, irrigidendo la propria posizione contro quella dell’avversario. Il risultato paradossale è quello di un personaggio che sfrutta sistematicamente l'opposizione ironica al politically correct per riaffermarlo in modo implicito, come non accadeva nel prequel.
La differenza tra il primo e il secondo Borat assomiglia insomma alla distanza che divide una mobile guerrilla da una guerra di trincea. I proiettili di Baron Cohen non sono meno penetranti, ma si può leggerne in anticipo la traiettoria. Nel debole intreccio che porta Borat e Tutar a recedere dai propri chiassosi pregiudizi confrontandosi con quelli silenti della società americana, lo sviluppo artificioso dell’azione lascia l’impressione che il comico abbia barato in più di una circostanza, a cominciare dai redneck Jim Russell e Jerry Holleman, che non recitano da attori professionisti ma si comportano da tali. In una comicità da reality tv, ogni elemento fittizio sottrae vis comica. Ma è un peccato veniale: in fondo un confine sottile separa realtà e narrazione, documentario e feature film, come già suggeriva Werner Herzog nel 1992 aprendo il suo "Apocalisse nel deserto" con una citazione di Pascal inventata di sana pianta.
Se la virtù comica si mantiene, se non fresca, inviolata, lo stesso non si può dire del valore documentario, dato che la cronaca delle imprese di Borat è interamente costruita e irrimediabilmente compromessa dal potere pantocratore del montaggio, arrivando quindi a omaggiare e tradire l'inconfessata ispirazione Michael Moore. E qui Baron Cohen si conferma il grande ingannatore, trickster supremo che trasforma le vittime in spettatori e gli spettatori in vittime, trascinando tutti in un rondò esilarante. L’ottimo affiatamento tra Baron Cohen e Bakalova non fa che rilanciare il successo annunciato di un personaggio che ormai, come dimostra il film stesso, è conosciuto universalmente e reclama un posto, dopo Charlot e Hulot, tra le grandi maschere della commedia umana.
cast:
Sacha Baron Cohen, Maria Bakalova
regia:
Jason Woliner
titolo originale:
Borat Subsequent Moviefilm: Delivery of Prodigious Bribe to American Regime for Make Benefit Once Gl
distribuzione:
Prime Video
durata:
96'
produzione:
Four by Two Films
sceneggiatura:
Peter Baynham, Sacha Baron Cohen, Jena Friedman, Anthony Hines, Lee Kern, Dan Mazer, Erica Rivinoja, Dan Swimer
fotografia:
Luke Geissbuhler
montaggio:
Craig Alpert, Michael Giambra, James Thomas
costumi:
Erinn Knight
musiche:
Erran Baron Cohen