Bright Hope, 268 anime. Allo sceriffo Franklin Hunt (Kurt Russell) arrivano voci su di un tizio sospetto in giro per la cittadina. Meglio controllare. Ha attirato una tribù di selvaggi, trogloditi, che rapiscono una donna e un collega di legge. Formato un gruppo di quattro uomini, la missione di recupero ha inizio.
S. Craig Zahler scrive e dirige "Bone Tomahawk", che a pensarlo sembra un prodotto da grindhouse per la sua natura di genere duplice e così smaccatamente separata: prima parte western, seconda horror. Zahler però non pensa al meta-omaggio che fecero i compagnoni Tarantino e Rodriguez all'exploitation ("Grindhouse"); anche se della scrittura di "A prova di morte" il regista di Miami sembra prendere il pruriginoso mimetismo, quello che cova finché il primo omicidio di Stuntman Mike non dà inizio al cabaret dello slasher automobilistico.
"Bone Tomahawk" possiede appunto questa identità polimorfica che si manifesta a episodi. Il primo lungo macroambiente filmico è il western con cui Zahler omaggia il classico: agli eroi spetta una missione contro il nemico indigeno. È inevitabile il confronto con la crisi della classicità del genere, e non riguarda soltanto l'innesto "altro" (l'horror; come è stato il giallo per "Hateful Eight" o il citazionismo per "Rango", due esempi recenti), ma anche per la scrittura dei personaggi. Ad una prima occhiata tarantiniani, poi ironicamente autonomi e al limite del parodico (su tutti il fascinoso e spietato John Brooder), così ammiccanti al ruolo macchiettistico eppure vivi, plausibili e schietti.
Zahler non sembra voler giocare coi livelli di lettura, anzi li rimuove per acutizzare l'interesse che uno storyteller vuole accendere nello spettatore: l'immedesimazione nella narrazione d'avventura (ne parliamo anche nella puntata del podcast dedicata a "Bone Tomahawk"). Ed ecco che un circo di pulci o come evitare di bagnare un libro mentre si è in vasca diventano temi da chiacchiera che fomentano il senso di weirdness al limite del fumettone grossolano eppure autorizzano i personaggi a calarsi in una diegesi fatta di parole e scambi di idee, delineando caratteri antiepici e anticlassici, appunto. Nella prima parte difatti il dialogo ruba la scena, il ritmo è drasticamente lento e, dunque, per Zahler l'avventura sta nel parlato, nell'atmosfera western da imprimere con inquadrature chiare e semplici.
Oltre alla scrittura di alcuni archetipi (lo sceriffo, il vice, il cowboy) parzialmente rivisitati, la messa in scena del West richiama scolasticamente il raggiungimento del limes, la tensione verso territori liminali, al di là della terra esplorata e ben oltre il "giardino" o il "pascolo"; è significativo che la compagine protagonista protegga ogni accampamento con un filo di sonagli ogni che li avvisi su qualunque pericolo arrivi da fuori, dall'inconosciuto. La destinazione verso il superamento dell'ignoto in questo caso è rappresentato come l'artificiale struttura circolare di pietre ed ossa dei trogloditi. Da qui il western sfocia nel suo limite contemporaneo nell'impossibilità di rimanere se stesso.
Zahler decide dunque per la deriva horror, replicando, ancor prima che omaggiando, il cannibal movie (Sergio Martino, Joe D'Amato, Umberto Lenzi, Ruggero Deodato). "Bone Tomahawk" fa collidere gli States perdenti (il vicesceriffo disilluso ma devoto, l'allevatore ferito) o arroccati nei loro ruoli sociali/caratteriali (lo sceriffo, il belloccio o l'indiano) con la violenza dell'inspiegabile. Zahler guarda al modello del film "cannibalistico" nei suoi elementi di base: rapimento, prigionia, pasto, infine la violenza sul genere femminile. Non altera, piuttosto assimila il genere e lo osserva replicarsi felicemente. La violenza diviene sintomo di un mondo alla deriva e di un genere irrinunciabile quanto mutante (il western, appunto). La capacità del regista statunitense sta nella ferma capacità di non voler mentire allo spettatore, di non mascherare l'immagine con nebbiosa critica politica/sociale (per quanto essa sia presente e di stampo carpenteriano): dritto al punto quanto è dritta la meta dei quattro. Il fardello sociale che Zahler rappresenta è riscontrabile in un primo momento nell'indiano che reitera una forma di intolleranza verso i trogloditi e le persone di colore ("They don't eat niggers") e, di conseguenza, nella rappresentazione iperviolenta del cannibalismo ai danni della società civile.
Zahler confeziona un lavoro artigianale interessato a divertire, a riflettere tramite parole e immagini laddove il commento musicale (di Jeff Herriott e Zahler) quasi tace. Farà presto a replicare la formula col successivo "Cell Block 99".
cast:
Kurt Russell, Patrick Wilson, Matthew Fox, Richard Jenkins, Lili Simmons, David Arquette
regia:
S. Craig Zahler
titolo originale:
Bone Tomahawk
distribuzione:
RLJ Entertainment
durata:
133'
produzione:
Caliber Media Company
sceneggiatura:
S. Craig Zahler
fotografia:
Benji Bakshi
scenografie:
Freddy Waff
montaggio:
Gregg D Auria, Fred Raskin
costumi:
Chantal Filson
musiche:
Jeff Herriott, S. Craig Zahler