"È solo una storia" recita enfaticamente Jonathan Rhys Meyers in un primissimo piano che, al fine di sottolineare maggiormente la valenza dell'affermazione, dura leggermente qualche frazione di secondo in più rispetto al normale. Nell'apparente superficialità di questa sentenza, si può cogliere il cardine attorno a cui ruota tutta la narrazione di "Black Butterfly", ritorno alla regia, dopo quasi dieci anni, di Brian Goodman: la riflessione metacinematografica sull'eterna dicotomia tra realtà e finzione. In un racconto a metà tra "Misery non deve morire" e "Shining" di Stephen King, infarcito di stereotipi e luoghi comuni tipici del genere (tanto che alcuni hanno scomodato, non a caso, il termine
b-movie), "Black Butterfly" innesta un vorticoso gioco di
mise en abyme teso a sovvertire continuamente le aspettative del pubblico. Tutto già visto, assorbito, ripetuto; costruito, scomposto, riassemblato: basti pensare solo al
Woody Allen di "Harry a pezzi" o al, più recente ancora, Charlie Kaufman del "
Ladro di orchidee".
Uno sceneggiatore alcolizzato, vittima del classico blocco dello scrittore, indebitato al punto tale da aver "perso tutto, moglie compresa"; uno sconosciuto misterioso, enigmatico, silenzioso, dal fare ambiguo e minaccioso; una casa isolata, malmessa, sperduta tra le montagne, priva di connessione telefonica e Internet: sono questi i semplicissimi espedienti narrativi utilizzati da Marc Frydman e Justin Stanley per imbastire un
thriller che, almeno inizialmente, si lascia apprezzare per la sincerità della sua struttura. Per la prima mezz'ora, infatti, "Black Butterfly" rimane un prodotto di genere che intrattiene e persino incuriosisce lo spettatore, senza superflui virtuosismi o particolari innovazioni tecniche (i meccanismi finalizzati alla costruzione della
suspense sono i soliti, tra camera a mano e montaggio alternato). Allo stesso tempo, però, si percepiscono anche le avvisaglie della futura svolta metacinematografica, destinata a offuscare quanto di buono mostrato fino ad allora.
Quando infatti il film disvela le sue carte e si mostra per ciò che vuole - o
vorrebbe - essere, ecco che Goodman inizia a perdere le redini della sua creazione: le battute si fanno didascalicamente portatrici di un significato ulteriore ("Le tue storie non sono abbastanza buone solo perché bevi"); il rapporto tra i due protagonisti precipita
troppo rovinosamente, senza l'adeguata contestualizzazione; il ricorso ai
cliché del filone diviene sempre più abusato e fastidioso. Non aiutano di certo un Banderas che comincia a farsi caricaturale, tutto smorfie e faccette, e un Rhys Meyers che perde il fascino del forestiero per diventare il solito, terribile mostro della porta accanto.
"Black Butterfly" scivola lentamente e inesorabilmente nel ridicolo involontario fino alla definitiva caduta nel patetico, lasciando il campo a una presuntuosa meditazione sul linguaggio della settima arte. Strizzando l'occhio al cinema di
Shyamalan, Goodman inanella, senza alcuna cognizione, una serie di colpi di scena assolutamente privi di un senso logico, non riuscendo minimamente a eguagliare la maestria - sia nella realizzazione dell'intreccio che nell'eleganza della regia, capaci di valorizzare al meglio i celebri
coups de théâtre - tipica dell'autore di origini indiane.
E il problema fondamentale di "Black Butterfly" risiede proprio nella banalità con cui decide di trattare una materia tanto complessa, infastidendo per la volontà di porsi
al di sopra del genere a cui fa riferimento. Tutte le implicazioni che Frydman e Stanley devono aver pensato per la loro sceneggiatura crollano dinnanzi alla povertà della messinscena, alla convenzionalità della loro riflessione, alla pseudo-arguzia del loro intellettualismo, culminante in un ultimo e inaccettabile sberleffo finale: una chiusura che, nella sua superba arroganza, diviene il compendio perfetto dell'intero lungometraggio.